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IGNAZIO SILONE CANTORE, DIFENSORE DEI “CAFONI” DELLA MARSICA E ANTICIPATORE DEL NEOREALISMO Di Carmelo Aliberti

IGNAZIO SILONE CANTORE, DIFENSORE DEI “CAFONI” DELLA MARSICA E ANTICIPATORE DEL NEOREALISMO

Di Carmelo Aliberti

 

ignazio-silone

 

 

Con Ignazio Silone (nato a Pescina dei Marsi, in provincia dell’Aquila, il 1° maggio del 1900, pseudonimo di Secondino Tranquilli, e deceduto a Ginevra nel 1978)  la questione meridionale riesplode nelle sue ancestrali e incontenibili istanze. Particolarmente in Fontamara, romanzo scritto nel Sanatorio di Davos nel 1930-33, dove lo scrittore si era ricoverato per motivi di salute, Silone promuove a protagonisti della sua storia i poveri contadini delle sue terre, soprannominati “cafoni”, sottoposti sia a uno sfruttamento spietato dei proprietari locali, sia al tormento, alle asperità geografiche dei luoghi, privi d’acqua, dei più elementari servizi igienici, di mezzi di sussistenza e di reti di comunicazione.

Con l’opera di Silone, Vittorini, Bernari, Rea, Levi, per finire a Consolo e Sciascia (per citarne alcuni), gli ultimi grandi scrittore siciliano scomparso recentemente, a Quasimodo, a Cattafi ecc., particolarmente con lo scrittore abruzzese, la questione meridionale diventa questione del Sud di tutto il mondo, cioè di tutte le masse sfruttate nel meridione del mondo, si riconverte in termini operativi (e non più solo idillici, lacrimosi e oleografici) e diviene lo scenario su cui lo scrittore incomincia ad acquistare un nuovo ruolo, trasformando il proprio impegno creativo in vera esortazione alla lotta. Perciò, nella trilogia dell’esilio dello scrittore (“Fontamara”, “Vino e pane”, “Il seme sotto la neve”) per rimanere nell’ambito del tema e lasciando da parte tutti gli altri motivi in cui si articola la narrativa siloniana, lo scrittore abbandona la tendenza all’evasione verso plaghe astratte o fantastiche di realtà, e impegna le armi dell’impegno, le armi della letteratura, in difesa dei suoi “cafoni” (in cui, come suggerisce nella prefazione, si identificano i poveri e i diseredati di tutto il mondo).

All’interno dell’animo di Silone agì dapprima un impulso umanistico impregnato di idee socialiste, maturato a contatto con i diseredati del suo villaggio, poi questa piccola scintilla si dilatò a osservare le laceranti ferite dell’uomo meridionale e degli sfruttati della sua terra e, infine, quando la sua riflessione si allargò su orizzonti più vasti, l’umanitarismo istintuale nello scrittore  si identificò inconsciamente con l’ideologia marxiana, fino a farlo diventare, con Gramsci e Togliatti, il cofondatore del PCI., nel Congresso di Livorno del 1921.

Ma, come ben presto si scoprì, la sua fu solo un abbaglio giovanile, non surrogato da motivi ideologici, per cui, dopo la famosa riunione del Comintern, svoltasi nel 1927 a Mosca, alla quale partecipò anche Silone, come Segretario della sezione giovanile, durante la quale Stalin impose di firmare un testo di condanna dei suoi avversari interni, scritto in russo e perciò incomprensibile ai partecipanti, Silone capì di aver aderito a un partito monolitico e, inorridito, fuggì, rifugiandosi nella letteratura, da dove continuò coerentemente a combattere in difesa e per la palingenesi sociale dei suoi cafoni, particolarmente in Fontamara, mentre è tormentato dalla malattia in quel letto d’ospedale svizzero a Davos, è costantemente perforato dalle lacrime di dolore dei suoi compagni fontamaresi, che lo scrittore immagina lo vadano a trovare. Allora questo drappello di fantasmi che lo “perseguitavano”, diventano personaggi e lo scrittore denuncia al mondo la questione dei “cafoni”, che in quel momento storico rappresentava l’aspetto più tragico della questione meridionale, perché si intrecciava con la bufera dittatoriale che dilagava allora in diverse parti d’Europa, incidendo barbaramente sulla storia delle vittime.

Convinto che “nessuna ragione di Stato si identificava con la causa dell’uomo”, Silone, dopo aver descritto “di che lacrime grandi e di che sangue” la storia della sua gente, si lancia alla scoperta delle cause delle persecuzioni istituzionali, per poter liberare dalle catene laceranti i suoi fontamaresi e contribuire alla progettazione di un mondo utopico, dove non vi siano più discriminazioni, e poter vivere in un microcosmo di giustizia sociale e di solidarietà umana. Appartenente a una famiglia indigente, presto maturò una profonda sensibilità per i miserabili analfabeti della sua terra, tanto amato da loro e spessissimo presente nella sede dei lavoratori, ad ascoltare le loro storie di privazioni e di fame, partecipando alla loro disperazione e aiutandoli a leggere e rispondere alle lettere dei familiari e parenti emigrati alla ricerca di pane per i propri cari rimasti nel villaggio. In tale ambiente, plasmò la sua anima proletaria, che si espresse, anche dopo la fondazione del P.C.I. e la nomina a Segretario della gioventù comunista, in contestazioni sociali e in altre forme di disobbedienza civile e politica. Molto presto, sorvegliato speciale della polizia segreta fascista, fu costretto a vivere da clandestino e si nascose anche a Trieste, dove collaborò e condiresse “Il Lavoratore” di ispirazione socialista, ma presto dovette intraprendere la via clandestina dell’esilio, coltivando sempre un sentimento incrollabile per la tragedia sociale e umana degli oppressi della sua terra e degli sfruttati e frustati dei poveri dell’intero pianeta e particolarmente,  come rivela nella introduzione a “Fontamara”, nella parte del Sud del mondo. Clandestino in Germania, ospitò nel suo rifugio segreto, i poeti e gli scrittori russi perseguitati dal comunismo staliniano e, grazie a lui, l’Occidente conobbe nomi e opere dei grandi intellettuali sovietici del dissenso, come Daniel, Sjnjavski e Abram Terz, sopravvissuti all’inferno dei Gulag, e del mondo culturale russo, ostile al sistema totalitario. Nel 1933, usciva in tedesco “Fontamara”, che fu tradotto simultaneamente in moltissime lingue, riuscendo a denunciare al mondo le nefandezze e la barbarie del regime fascista, fino ad allora mascherate dalla falsa e suadente propaganda all’estero dell’Italia come un regno ideale di governo. Le quotidiane persecuzioni, crocifissioni e sevizie delle squadracce del regime suscitarono forti antipatie verso il fascismo, che aveva già imposto le leggi “fascistissime” e costretto i docenti universitari e i dipendenti pubblici a sottoscrivere la loro adesione e fedeltà al fascismo come anche il lavoratore comune destinato a vivere senza lavoro e non iscritto nelle liste di Collocamento dei disoccupati, per la mancata sottoscrizione della suddetta carta di lealtà al regime. Lo scrittore della libertà, intanto, continuava l’attività di propaganda antisistema anche con i suoi scritti, romanzi e saggi politici proseguendo ad approfondire i sistemi e le radici della dittatura e costretto a nascondersi in diversi luoghi d’Europa. Intanto, nuove idee di uguaglianza, di giustizia e di libertà circolavano clandestinamente a “Fontamara”, grazie ad un simbolico personaggio sconosciuto, detto “Il Solito Sconosciuto”, che, conosciutisi per caso, affida al giovane scrittore un pacco di manifesti propagandistici contro il sistema e che incitavano alla rivoluzione antifascista. L’oculata polizia segreta fascista arresta Silone, con l’accusa di propaganda sovversiva, e vuole estirpargli con la tortura la vera identità del Solito Sconosciuto (che in realtà era l’aleggiante simbolo delle nuove idee socialiste che si andavano diffondendo in Europa e che incominciavano a trascinare le masse oppresse, affamate, torturate e violentate in modo dissacrante, appartenenti al mondo contadino. Cade vittima della violenza carnale anche la donna che aveva addolcito l’istintivo comportamento di Berardo, con cui aveva elaborato progetti d’amore familiare e per renderne possibile la realizzazione Berardo aveva intrapreso logoranti iniziative lavorative, quali il dissodamento di dure terre incolte, dette “Terre maledette”, rifiutate da tutti gli abitanti, perché ritenute “terre del diavolo”. Nella incursione notturna di fascisti ubriachi, detta notte dell’orrore, lo scempio totale fu consumato a Fontamara, dove anche l’ingenua Elvira, fidanzata di Berardo, subì l’atrocità della violenza sotto il campanile della chiesa. La notizia dello scempio compiuto sul corpo di Maria, frantuma il sogno di rientrare nel corso di una vita normale e, continuamente torturato dagli agenti del regime, si arrende e, falsamente, riconosce di essere lui  l’inafferrabile “Solito Sconosciuto e sulla croce, come Cristo, pronuncia le profetiche parole: Finalmente, ecco un fontamarese che non muore per sé, ma si sacrifica per gli altri”, imitando l’esempio del martirio di Cristo, e inseminando nella coscienza del suo  popolo, il seme della rivolta e il sacrificio della vita, nella lotta per la conquista e della agognata libertà. L’esempio sacrificale della morte di Berardo scuote le coscienze anestetizzate dall’assuefazione alla fame, alla rassegnata schiavitù e alle beffe ordite per divertimento sadico della nobiltà agraria, e, riuniti sotto il campanile, dove è stata immolata Maria, la donna di Berardo, simbolo dei valori morali dei fontamaresi, si chiedono più volte: “Che fare”? di fronte al supplizio della loro vita. La risposta era chiara, come esemplare era stato il titolo del giornale di Lenin “Che fare”, realizzato anche dai reietti, umiliati e offesi di Fontamara, che implicitamente si danno la risposta, cioè La Rivoluzione, perché la dignità e la libertà sono doni preziosi che solo chi li possiede, può difendere o riconquistare. 

Per poter liberare dallo stato di totale emarginazione i braccianti del Fucino, ancora immersi in una condizione feudale, e in cui prevale quell’umanesimo evangelico, “senza partito e senza Chiesa”, che era alla base della sua formazione umana e culturale, sulla scorta della lezione di Cristo, Silone regala alla questione meridionale un personaggio immortale, come Berardo Viola (protagonista di Fontamara), che, dopo le istintive intemperanze giovanili, si assoggetta senza ribellarsi alle torture e ai soprusi del regime, assurgendo a personaggio-simbolo per una soluzione della questione meridionale, in quanto alla fine, con l’ideazione del foglio locale, intitolato “Che fare?”, come il foglio fondato da Lenin in Russia per rafforzare la necessità della rivoluzione nel segno dell’ideologia marxista e addottrinare le coscienze alla nuove idee, rivelando anche le azioni mostruose dello zarismo, come strumento di denuncia al mondo delle crudeltà e delle prevaricazioni del fascismo a Fontamara su avversari e innocenti, sui deboli e gli indifesi, sui delitti visibili e invisibili ordinati ed eseguiti dalle squadracce nere, per rivelare il vero volto di un regime più atroce di altri totalitarismi, con l’obiettivo di far maturare in ciascuno una coscienza di rivolta collettiva per abbattere un criminale sistema di potere, per sostituirlo con la realizzazione di un progetto istituzionale, fondato su un modello di sistema, imperniato su una tipologia di cultura egalitaria della società, in cui i valori del cristianesimo (senza Chiesa) e del socialismo umanitario-libertario (e, perciò, senza partito) si fondano in un profetico progetto socio-politico. Alcuni ricercatori tentarono in anni recenti di infangare la figura e il coraggioso operato antifascista, pagato a caro prezzo con una vita di fame e di peregrinazioni in esilio, strumentalizzando subdolamente alcune lettere, inviate dalla clandestinità dallo scrittore al Duce, con l’accusa infamante e falsa di essere un delatore del regime, al fine di cancellare ignominiosamente dalle pagine dell’antifascismo l’alone eroico del grande intellettuale che, con Fontamara  rivelò all’intera umanità il sistema barbarico, totalitario e monolitico di una delle più spietate dittature e, come “Le mie prigioni” del Pellico produsse gli effetti della causa perduta. In realtà, si trattava di qualche lettera, indirizzata da Silone a Mussolini per chiedere la concessione della grazia per impedire che Romolo, il fratello minore venisse condannato a morte, con l’accusa di aver partecipato a una manifestazione contro il regime. Silone confessa di aver fatto ciò per il fratello che lo aveva seguito ciecamente nella lotta antifascista e il fratello maggiore si autoaccusava della condanna del giovane fratello per non averlo potuto impedire. Il suddetto carteggio, fino a tempi recenti, era secretato negli archivi di stato; da qualche tempo è stato reso accessibile agli studiosi, per cui se ne può prendere atto.  Con un inedito e più intenso ruolo la letteratura, circa la questione meridionale, tende a proporsi come strumento di profezia, in attesa del “Terzo regno” e di una vera era di pace, di giustizia, di libertà, di amore e di solidarietà, dell’avvento, cioè, di un umanesimo integrale, di cui Silone (a differenza degli altri scrittori meridionali) si fa banditore dell’avvento di un “Nuovo Regno”, di cui Silone si rivela inconfondibile profeta, perché come egli stesso ebbe a sottolineare, lo scrittore appartiene alla società e nessuna ragione di sorta, si può identificare con la causa dell’uomo, come sostiene il critico Nino Motta nel quotidiano “Il Centro” del 30/6/1994.

Un contributo costruttivo alla questione meridionale fu fornito da alcuni poeti e scrittori del neorealismo, che, esorditi nel periodo fascista, esplosero subito dopo il secondo conflitto mondiale, strutturando le loro opere (oltre che sui motivi della Resistenza), in particolar modo al Sud, sulle istanze etico-civili, maturate in tanti anni di macerazione fisica, psicologica e intellettuale, di fronte alle rovine materiali e allo  sfacelo morale del Mezzogiorno d’Italia, dove i derelitti della Marsica incominciarono a manifestare decisi segni di rivolta.

 

FONTAMARA

 

“Fontamara” è il primo romanzo di Ignazio Silone (pseudonimo di Secondo Tranquilli, 1900-1978), scrittore abruzzese che in Abruzzo ha ambientato le sue opere più significative. Nonostante il provincialismo delle ambientazioni, la sua opera deve considerarsi di livello europeo per le tematiche politiche e religiose affrontate, che riguardano la condizione dell’uomo nei suoi caratteri universali. Di orientamento comunista e antifascista della prima ora, Silone nel 1930 emigrò per ragioni politiche in Svizzera e qui, nel 1933, pubblicò in traduzione tedesca la prima edizione di “Fontamara”, che fu poi diffuso clandestinamente in italiano; solo nel 1949 verrà pubblicata, per Mondadori, una prima edizione nella lingua originale. Questo romanzo, che denuncia le condizioni di estrema povertà dei “cafoni” della valle abruzzese del Fucino, esclusi dai processi di ammodernamento dei governi dell’Italia unitaria (dalla monarchia sabauda al fascismo), fu al centro del cosiddetto “caso Silone”, scatenato dalla difficoltà di fornire all’opera un’etichetta critica unanimemente accettata, dal neorealismo alla narrativa regionale, dal verismo all’espressionismo letterario.

Più ancora che in Italia, “Fontamara” fu letto e apprezzato all’estero, dagli Stati Uniti ai paesi del Terzo Mondo, dove diventò il libro simbolo della volontà di riscatto degli “ultimi”.

 

Fontamara è il primo romanzo di Ignazio Silone (1900-1978), che ha ambientato in Abruzzo le sue opere più significative, senza che il provincialismo ambientale abbia impedito alla sua opera  di  essere considerata di livello europeo per le tematiche politiche e religiose affrontate, che riguardano la condizione dell’uomo e i valori universali, seriamente minacciati dagli spettri emergenti delle dittature.  Antifascista precoce, nel 1921 partecipò nel Congresso di Livorno alla nascita del P.C.I e fu incaricato di catechizzare la gioventù comunista, organizzando riunioni ed incontri e, affiggendo manifesti con i giovani adepti. Subito schedato come nemico del regime, emigrò in Svizzera dove, ammalato si ricoverò nel nosocomio di Davos, portando con sé nel tabernacolo del cuore le violenze, i soprusi, i cinici atteggiamenti, le aberranti sopraffazioni, che aveva visto abbattersi dalle camicie nere sul suo popolo inerme e analfabeta e, perciò, condannato ad ogni raggiro da parte delle autorità. Unico loro conforto, l’incontrarsi nel circolo dei lavoratori e sentirsi vicini nel dolore e nell’amicizia e traendo conforto dalle lettere dei propri emigrati in Germania o Oltreoceano, che il giovanissimo Silone, essendo l’unico alfabetizzato, era incaricato di leggere a ciascun destinatario e rispondere, su incarico degli stessi, con una parola di conforto e di speranza.   nel 1933, pubblicò in traduzione tedesca la prima edizione del romanzo Fontamara, diffuso clandestinamente in italiano e solo nel 1949 verrà pubblicata, per Mondadori, una prima edizione in Italia. Questo romanzo, che denuncia le condizioni di estrema povertà dei “cafoni” (il termine è usato dallo scrittore, non con risvolti dispregiativi, ma con il nobile significato di gente povera ed onesta)  del Fucino, esclusi dai processi evolutivi dell’Italia Unita , suscitando una polemica accesa tra i critici che non riuscirono a catalogare l’opera con un’etichetta assoluta , dal neorealismo al regionalismo, dal verismo all’espressionismo . Più ancora che in Italia, Fontamara fu letto e apprezzato all’estero, dagli Stati Uniti ai paesi del Terzo Mondo, dove diventò il libro simbolo dell’antifascismo. Fontamara è il nome immaginario di un piccolissimo paese sopra la piana del Fucino, collocato su un territorio scosceso e infruttuoso, che costringe gli abitanti a lavorare a giornata come braccianti nelle terre dei piccoli proprietari locali. Ciò naturalmente determina una discrasia sociale tra lo strato più povero della popolazione (i contadini “cafoni”, appunto) e i possidenti della classe media (i “galantuomini”), che sono tutelati dal potere fascista e dall’istituzione ecclesiastica. Le vicende sono ambientate verso il 1929.                         

La narrazione comincia però in Svizzera, dove un io-narrante, l’alter ego dell’autore, riceve la visita di tre persone, due uomini (padre e figlio) una donna, suoi parenti, abitanti di Fontamara, fuggiti clandestinamente dall’Italia, dopo i tragici e disumani eventi accaduti a Fontamara, e arrivati fino in Svizzera per chiedere asilo e per condividere con l’autore, loro parente e conterraneo, le recenti e sciagurate vicende accadute nel paese. L’autore decide di trascrivere, senza interferenze personali o espansioni descrittive o riflessive, il loro racconto perché le condizioni disperate di “Fontamara” somigliano a quelle di ogni villaggio meridionale, più misero e abbandonato degli altri”, Fontamara è un piccolo universo, dove si vivono esperienze di spessore universale. In più, chi scrive è spinto a testimoniare dalla speranza che il “cafone”, protagonista con le proprie sofferenze dell’intero racconto, possa acquisire una forte valenza testimoniale, con l’obiettivo di scuotere le coscienze dei contadini locali dalla plurisecolare anestesia storia.  La loro è una vicenda di povertà e soprusi, che prosegue sin dai tempi dell’unificazione d’Italia e del passaggio dalla dominazione borbonica a quella sabauda. Nessuno si è mai occupato dei cafoni della Marsica, perché i cafoni da sempre sono considerati una specie inferiore di uomini:

“E noi?” gli rispondemmo. “Non siamo cristiani anche noi?”

“Voi siete cafone” ci rispose quello. “Carne abituata a soffrire” 

Con l’avvento al potere del fascismo, però, la condizione si è aggravata. Lo dimostra emblematicamente l’evento con cui si apre il racconto, ovvero l’interruzione dell’erogazione di energia elettrica nel paese, dove la notte si regredisce a vivere al “chiaro di luna” Gli abitanti ignorano i connotati del nuovo governo, né hanno idea di cosa significhi “fascista”: per loro chi comanda si misura solo nei termini del miglioramento economico di vita e col nuovo potere si vive un significativo peggioramento della precarietà esistenziale. Il racconto è paradigmato da una sequenza di inganni orditi ai danni dei cafoni da parte dei nuovi governanti locali, rappresentati dal personaggio del podestà, l’autoritario e spietato Impresario, appoggiato dal clero-impersonato dal pavido don Abbacchio (parodia del manzoniano don Abbondio) – e dai piccoli proprietari come don Circostanza, un voltagabbana che dovrebbe tutelare gli interessi dei fontamaresi invece protegge quelli dei nuovi padroni. Al raggiro dell’elettricità si aggiunge quello connesso al corso del ruscello, la cui acqua è una risorsa di primaria importanza per l’economia rurale di Fontamara. Con la connivenza delle istituzioni, questo è stato incanalato verso le terre dell’Impresario per renderle più fertili e produttive. Gli uomini e le donne di Fontamara, però, non sono disposti ad arrendersi di fronte ai soprusi dei ricchi e potenti e tentano con varie proteste ingenue, di difendere i propri diritti. I “cafoni”, per ignoranza e per analfabetismo hanno firmato una carta in bianco che autorizzava l’esproprio dell’acqua, sono ingannati a causa della loro ignoranza e del loro analfabetismo: di fronte alla loro sommossa, l’avvocato don Circostanza li convince ad accettare un accordo scritto per cui “tre quarti” dell’acqua andrà all’Impresario e “tre quarti” al paese. Non comprendendo la palese incongruenza, i “cafoni” cadono nel tranello. In seguito, i fontamaresi assistono al fallimento di una grande manifestazione per rivendicare i loro diritti elementari e l’espropriazione di alcune terre da sempre destinate al pascolo comune.

Al danno e alle beffe, si aggiunge la feroce rappresaglia delle autorità, per aver tentato di ribellarsi ai loro ordini: un giorno, mentre tutti gli uomini del villaggio sono nei campi a lavorare, una squadraccia di fascisti irrompe a Fontamara, perquisendo le case e violentando le donne; al ritorno degli uomini, questi vengono “schedati” come sovversivi.

Viene poi promulgato il divieto di emigrare dal paese e quello di discutere di politica in pubblico. Il villaggio vive la condizione di un popolo abbandonato alle ingiustizie di un sistema fondato su clientelismo, violenza e corruzione; nessuno difende la causa dei cafoni che non hanno un capo carismatico. Il giovane Berardo Viola, che è un “cafone” dotato di una “coscienza di classe” assai rara, tenta inizialmente la strada della rivolta, ma poi si convince a cercare un lavoro e un futuro lontano dal misero paese natale, per poter tornare e sposare Elvira. Ma anche Berardo ha il destino di uno sconfitto: giunto a Roma, egli non riesce a trovare lavoro per la fama di sovversivi che accompagna i fontamaresi (e lui in particolare), il giovane è poi arrestato e torturato in carcere, dove si assumerà anche la responsabilità di alcune stampe che inneggiano all’antifascismo. Berardo morirà per le conseguenze delle percosse, convinto che di non morire “per sé, ma per gli altri”. La sua fine, causata dalle percosse e dalle torture, verrà mascherata come un suicidio.

Privi di alcuna guida, i fontamaresi provano ad organizzare le loro forze attorno a un giornale clandestino, dal titolo «Che fare?», ma l’esperienza è di breve durata. Mentre nelle campagne abruzzesi hanno luogo una serie di insurrezioni contro lo Stato fascista, le squadre nere tornano a colpire ancor più duramente Fontamara, che viene saccheggiata e data alle fiamme e tutti i “cafoni” trucidati.  Sfuggono alla strage, i tre esuli (Giuvà, Matalè e loro figlio) che vengono salvati dall’anarchico Solito Sconosciuto, già in contatto con Berardo, e condotti in Svizzera. Sono loro il simbolo della speranza per il futuro di Fontamara.

 

        Il TRAGICOMICO IN   FONTAMARA

 

Quella raccontata in Fontamara è la storia tragica del destino di sofferenza assegnato agli “ultimi” della società italiana. Il romanzo si chiude su un’immagine di disperazione e disorientamento: i tre narratori sfuggono alla rappresaglia intervenuta a punire l’insurrezione di Fontamara e, allontanandosi dal paese, si chiedono “che fare?”. Non c’è risposta alla domanda e nulla all’orizzonte lascia trasparire una soluzione o una speranza. Eppure questo romanzo è stato considerato da molti critici come “il manifesto della dignità dei cafoni” e della loro volontà di rivalsa rispetto ai lutti e alle ingiustizie inflitte. In effetti, per la prima volta nella letteratura italiana, la plebe meridionale prende direttamente la parola e racconta la Storia dal proprio punto di vista. E proprio il punto di vista della narrazione è l’elemento che Silone sceglie per contrastare un potere che, per il proprio tornaconto, sfrutta impietosamente l’ingenuità inerme e l’onestà della povera gente. Chi racconta, infatti, traducendo in italiano il resoconto dialettale dei tre fontamaresi fuggiti, rende comprensibile ed efficace il messaggio etico e di denuncia sociale. Al tempo stesso però viene alla luce anche l’aspetto paradossale, per non dire comico, di alcune vicende. Ad esempio, nel caso di una delle molte truffe perpetrate ai danni dei “cafonI”:

“Ecco, intendiamoci”, riprese Innocenzo “intendiamoci, non si tratta di tasse, vi giuro su tutti i santi che non si tratta di pagare. Se si tratta di tasse, che Dio mi tolga la vista”.

Vi fu una piccola pausa, giusto il tempo per permettere a Dio di esaminare il caso. Innocenzo conservò la vista. L’improvvisa interruzione dell’illuminazione pubblica, decisa dal nuovo governo per i mancati pagamenti delle tante bollette, esasperò ulteriormente il cattivo -cafoni, che ignorando l’umore dei contadini e le caratteristiche del nuovo regime, immaginarono che qualche nemico della regina Elena, meritevole di gratitudine per aver donato al paese l’illuminazione pubblica, avrebbe voluto offenderla con tale sgarbo. Non capirono che era stata, invece, un’azione intimidatoria o meglio un avvertimento, con cui il nuovo regime rivelava il suo vero volto. Così, gli abitanti tornarono indietro di molti anni, trascorrendo le notti al chiaro di luna, senza alcun avviso giustificativo. Tale episodio rappresenta un altro anello della catena infinita delle beffe e della privazione del solo diritto, di cui i “cafoni” erano stati beneficiati, assieme alla fornitura di sigarette dalle istituzioni; ma le sigarette avrebbero essere sostituite con la pipa riempita di foglie secche, come un tempo. La mancanza dell’illuminazione pubblica trasformava il villaggio in un piccolo cimitero, costringendo tutti all’uso della lanterna, generando un nuovo episodio di regressione. Tra i tanti raggiri subiti dai “cafoni” per la mancanza di alfabetizzazione, fu quello del “furto” del diritto di usufruire dell’acqua del ruscello, indispensabile per irrigare i loro minuscoli fazzoletti di terra, da cui traevano i soli prodotti per la stentata sopravvivenza. L’acqua del ruscello era anche indispensabile per rendere fertili i molti campi incolti del principe Torlonia, il più ricco di terre dell’intera regione e politicamente potentissimo, perché inserito ai vertici del nuovo potere. Per potere impossessarsi del diritto della fruizione dell’acqua da parte dei contadini poveri, fu ordito un inganno ingegnoso, quanto abominevole e criminale. Fu inviato il cav. Pelino per convincere tutti i contadini a firmare un foglio in bianco, con cui il governo avrebbe concesso molti benefici. Con tale inganno, il cavalier Pelino, dopo le proteste degli astanti, che fiutarono l’ingannevole orditura, sfoderò un repertorio retorico incomprensibile e, per abbattere il muro dell’avversione, si inventò la storia dei benefici. Dopo il crollò del primo, incominciarono a firmare gli altri. L’operazione fu sospesa per lo spegnersi dei lumi per il consumo totale dell’olio che ne alimentava la fiamma, Marietta, proprietaria della cantina, li invitò ad entrare nel locale. Si disposero attorno al tavolo per continuare a firmare il documento in bianco. Ma, improvvisamente, qualcosa si mosse nel semibuio del tavolo. Si trattava di un pidocchio, più grande del solito e di altro colore, mai visto prima, perché Dio, quando creò il mondo, stabilì che i pidocchi, ad ogni rivoluzione, sarebbero cambiati in una nuova specie. Dopo che Marietta fece notar e che sulla schiena il pidocchio si vedeva una croce, Michele Zompa si ricordò di aver fatto un sogno. Dopo la Conciliazione tra Stato e Chiesa, il prete in un’omelia spiegò che ora anche per i cafoni sarebbe cominciata una nuova era. Quella notte, Zompa aveva sognato di vedere per le vie Cristo, seguito dal Papa, a cui chiedeva consigli su cosa regalare i cafoni, dopo la pace tra le due istituzioni senza offendere le autorità politiche. “Sarebbe giusto distribuire ai cafoni le terre del Fucino, che le hanno sempre lavorato” o dispensare i cafoni dal pagare le tasse o mandare un raccolto abbondante, ma ogni proposta veniva bloccata dal veto convincente del Papa, faceva osservare a Cristo che ognuna delle proposte avrebbe provocato l’offesa dei proprietari terrieri, che erano buoni cristiani. L’esenzione dal pagamento delle tasse avrebbe offeso i governanti i l’abbondanza dei raccolti avrebbe provocato l’abbassamento dei prezzi e ciò avrebbe danneggiato i commercianti che erano pure buoni cristiani. Cristo, amareggiato, propose di recarsi sul luogo e constatare le reali esigenze dei cafoni.  Cristo portava sulle spalle una grande bisaccia, autorizzando il papa a prendere e donare qualsiasi cosa necessaria a quella povera gente, costretta dalla fame e dalla povertà a mangiare pidocchi. Ai loro lamenti, il papa estrasse dalla bisaccia di Cristo una “nuvola” di pidocchi e li lanciò sulla gente, dicendo: “Questi nelle ore di ozio vi costringeranno a grattarvi e non avrete il tempo di peccare”. Il racconto de sogno di Michele Zompa irritò il cav. Pelino che si allontanò borbottando che avrebbero ancora sentito parlare di lui. Rientrando a casa a tastoni nel buio, lungo la scalinata, avvertì un rumore di vetri infranti e riconobbe per l’altezza dell’ombra, Berardo che a sassate rompeva le lampade spiegando: “le lampade senza la luce, a che servono?”

 La capacità di alternare, al tono grave con cui in prevalenza viene condotta la narrazione, un tono più leggero e disincantato è sempre funzionale alla denuncia delle contraddizioni e delle storture del potere: la presenza di elementi comici non implica affatto che chi narra si ponga ad un livello superiore o sia in sintonia con le prepotenze dei “galantuomini”. Il narratore decide di limitare al minimo i suoi interventi sul testo e sulle narrazioni dei tre “cafoni”: il suo compito è più quello del traduttore, per far emergere nella maniera meno filtrata possibile la visione del mondo di degli “ultimi”. La narrativa di Silone, anche in altre opere (“Pane e vino”, 1936; “Una manciata di more”, 1952; “L’avventura di un povero cristiano”, 1968), sin dalla sua prima prova conferma quindi un forte ed irrinunciabile retroterra etico, che ha la precedenza sulle questioni stilistiche e formali.

  Negli anni Sessanta Silone cambiò anche legalmente il proprio nome. Lo pseudonimo è derivato dai nomi del santo spagnolo Ignazio e di Quinto P. Silo, condottiero della popolazione dei Marsi contro Roma nella “guerra sociale” del 90 a.C. Lo pseudonimo indica allora le due tensioni che animano l’attività politica e di scrittore di Silone, ovvero l’ispirazione cristiana e la lotta contro le ingiustizie del potere contro i più deboli.

  Silone si allontanò dal movimento comunista già verso il 1930, poiché non ne condivideva la linea filo-stalinista, che espresse nel Cominter di Mosca, quando si oppose a Stalin che avrebbe voluto dai convenuti la firma di un documento di condanna del gruppo zinovieviano in dialetto cirillico conosciuto da pochi. In quella circostanza, Silone capì il carattere monolitico del partito. Allora preferì allontanarsi dai compagni, rimase così un uomo di sinistra e un contestatore dell’ordine costituito, affrancato però dalle logiche di partito e condannato

all’esilio o a qualcosa di peggio. Alla fine della seconda guerra mondiale, rientrò in Italia, partecipando attivamente alla stesura della Costituzione repubblicana, Si impegnò nella attività politica della Repubblica, schierandosi nei partito socialista prima e nella fazione moderata dopo la scissione del partito in massimalisti( che sostenevano il progetto rivoluzionario armato) e i moderati ( che sostenevano la necessità della conquista del potere in Italia, secondo i criteri costituzionali, cioè con il democratico e libero strumento elettorale. I forti contrasti nel partito, lo spinsero ad abbandonare l’impegno politico e a dedicarsi al nobile lavoro letterario, e, dopo l’uscita de “Il segreto di Luca” e “Uscita di sicurezza” nel 1967 , un documento autobiografico che racconta, come un romanzo, le molteplici disavventura della sua esistenza, dalla perdita dei genitori nel terrificante terremoto della Marsica del 1915, alla sua crescita di orfano e il pesante dovere di sostenere il fratellino Romolo, alla scelta(molto dolorosa) e all’abbandono dei compagni, quando uscì dal Partito, alla cui fondazione aveva proficuamente lavorato, dopo la scoperta del vero volto della tirannide del comunismo, senza abbandonare la lotta a fianco delle dolorose vittime che il nazifascismo immolava e torturava per non avere nemici nella gestione della dittatura. Ammalato negli ultimi anni di una incurabile polmonite, morì dopo lunga sofferenza nel nosocomio di Davos in miseria, tanto che fu lo stesso Pertini a pagargli personalmente tutte le spese. Le sue ossa, per volontà dello scrittore, sono custodite nella roccia ai piedi della chiesa di Pescina dei Marsi, dov’era nato, ma il suo nome e la sua opera volteggiano limpide nei cieli della conquistata libertà.  

foto alibertiCarmelo Aliberti

Informazioni su Monica Bauletti

Monica Bauletti, libri@monicabauletti.it Romanzi: -ATTACCO AGLI ILLUMINATI – EDITORE: LIBROMANIA (DeAgostini-Newton) 2014 -L’AMICA PIU’ PREZIOSA - EDITORE: LIBROMANIA (DeAgostini-Newton) 2014 -BERTA, LA LEGGENDA (PUBME.ME) 2017 -Racconto: VITE RIFLESE antologia UNA BELLA GIORNATA DI SOLE LIBROMANIA (DeAgostini-Newton) 2015 -Racconto “RESPIRO” secondo classificato al premio letterario edizione 2014 “MILLE E… UNA STORIA” e pubblicato nell’antologia del premio. -Racconto “TU NON MI AMI” numero dicembre 2014 rivista internazionale di letteratura e cultura varia “3°m TERZO MILLENNIO” fondata dal poeta-scrittore-saggista professore Carmelo Aliberti. -Racconto "MARTINA VEDE LE COSE" antologia: SOFFIA UN VENTO CONTRARIO - L'IGUANA EDIUTRICE www.monicabauletti.it

Un commento su “IGNAZIO SILONE CANTORE, DIFENSORE DEI “CAFONI” DELLA MARSICA E ANTICIPATORE DEL NEOREALISMO Di Carmelo Aliberti

  1. […] provengono dal resto del mondo, perché, come diceva Silone (sto rileggendo le sue opere!), i cafoni “sono ovunque uguali” […]

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