Tibi suavis filia,
che ti accingi a lasciare
appeso all’armadio dei ricordi
il fiocco rosa della fanciullezza
corri sulla sabbia del mare
verso il mitico nido delle isole,
Il poemetto di Carmelo Aliberti “Tibi, suavis filia” già nel titolo e nel primo verso rivela una tendenza ad un metro classico, l’endecasillabo sciolto. La lirica moderna, cominciando da Ungaretti, ha eliminato i metri, ha adottato il verso libero, creando in sostanza un tipo di prosa cadenzata, in cui l’essenza lirica è rivelato da collana di immagini-metafore. Ma vi sono scrittori che tendono al classico, che subito rivelano delle nostalgie per i metri antichi. Aliberti tra questi. All’endecasillabo d’apertura, seguono settenari, decasillabi, dodecasillabi. Ma chi vede le cose dentro, si accorge che il metronomo ulteriore di Aliberti continua a scandire endecasillabi, cui tuttavia egli concede di entrare nella sua lirica solo una volta ogni tanto, perché anche lo scrittore, con nostalgie di classicità deve convivere con il gusto del suo tempo. Nelle parole latine riaffiorano, se non proprio reminiscenze ciceroniane o catulliane, un quid affettivo, un gusto del vezzeggiativo e del soave che ci riporta a quegli autori, almeno a certi loro attimi tanto fuggevoli quanto memorabili. L’affetto paterno per la figlia, che sta uscendo dall’adolescenza per diventare donna, protagonista del poemetto. Un tema classico, perché esistenziale di ogni tempo e di ogni luogo; un momento tipico di ogni padre che si rende conto, con emozione profonda che la figlia, ieri quasi bambina, pronta per volare dal nido familiare dentro la vita. La “filia dolcissima” riaccende in famiglia le gemme della speranza su tralci che ormai si avviano ad un tramonto autunnale. Artemisia (nome mitologico) catalizza attorno a sé un ventaglio di sentimenti intatti, non logorati dal nostro tempo e dalla sua cultura infausta, che distrugge, dissacra, inquina, avvelena corrompe ogni cosa. Tutte le immagini-metafore che Artemisia richiama sono legate a qualcosa di primaverile, di fresco, di tenero, di soave. La cultura di oggi è come la soda caustica che tutto brucia, tutto irride, su tutto ironizza e diffonde sarcasmi, tutto dissolve, anche perché si crede condannata a un riso nichilista, perché incapace di credere a qualcosa e soprattutto ai sentimenti. Carmelo Aliberti è difeso da queste forme da non so da quale brezza marina siciliana, che caccia dall’isola i fumi velenosi della modernità e conserva gli aromi, i climi, i colori naturali di una eterna primavera del mondo, legata a misteriosi substrati greci e cristiani. Aliberti possiede un arco munito di molte frecce, e le metafore si aggiungono alle metafore, in un tessuto vibrante, svariante di sentimenti ed apici, collegati con la Terra madre siciliana, formata da tanti strati culturali. Il discorso poetico è aperto, sfrangiato, sorprendente, e abbaglia il lettore come se dentro ogni verso ci fosse uno specchio che riflette il sole, e un’arpa eolica che continua a cadenzare note su note nel vento siciliano.
Carlo Sgorlon
Per la rubrica Sfoglia l’autore
Monica Bauletti