I GRANDI DELLA LETTERATURA TRIESTINA CONTEMPORANEA: LA NARRATIVA DI FULVIO TOMIZZA a cura di CARMELO ALIBERTI_ PREMIO MEDIS TERRAE
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“FULVIO TOMIZZA E LA FRONTIERA DELL’ANIMA”
genere: Saggistica
autore: Carmelo Aliberti
editore: Bastogi
prezzo: euro 9,30
La riscoperta di uno dei più complessi autori del Secondo Novecento
Carmelo Aliberti è un uomo di vasta cultura umanistica, poeta e letterato di valore, pluripremiato con importanti riconoscimenti (ultimo in ordine di tempo, il prestigioso Premio per la Cultura “Medis Terrae”), molto apprezzato -in Italia ed oltre i suoi confini- per le sue opere dagli elevati contenuti e dallo stile inconfondibile, accolte favorevolmente dalla critica e lette da un sempre più alto numero di lettori entusiasti, nonché fatte oggetto di studio (specialmente negli ambienti universitari). La sua fama di attento saggista viene oggi ulteriormente consolidata dalla sua ultima fatica letteraria, “Fulvio Tomizza e la frontiera dell’anima” (Ed. Bastogi, 2001). In questo libro, secondo una tecnica personale faticosa ma estremamente produttiva, Aliberti ci mostra le molteplici facce di Fulvio Tomizza, con la relativa complessa personalità di scrittore perennemente tormentato e di indiscutibile spessore, annoverato, a ragione, tra i maggiori Autori italiani del secondo 900. Aliberti, con rigore scientifico e certosina pazienza, passa accuratamente al vaglio praticamente tutta la prolifica produzione dello scrittore istriano, non limitandosi ad una semplice ed automatica, per quanto approfondita, lettura bensì addentrandosi coraggiosamente nel fitto labirinto delle parole con intuizione e saggezza, fino a coglierne il significato più recondito e in definitiva più vero. Dalla laboriosa metabolizzazione di quanto assunto con occhi invisibili, posti in quella zona indistinta che unisce la mente al cuore, Aliberti sviluppa una visione assai originale dell’anima di Tomizza, offrendola successivamente in prezioso dono a ogni lettore, tramite un’esposizione critica di immediato impatto e di affascinante chiarezza. Le opere di Tomizza vengono sezionate ad una ad una, con rigorosa arte da patologo e partecipe impegno da psicanalista: “Materada” (primo capitolo di “Trilogia istriana”, il libro dell’esordio, dove comincia il difficoltoso tentativo di ricreare, tramite la scrittura, l’unità perduta, la lacerazione tra la comunità slava e quella italiana, dopo la guerra del 1947), “La ragazza di Petrovia” (secondo capitolo di “Trilogia istriana”, l’ideale continuazione di Materada, dove l’analisi psicologica, secondo nuove linee evolutive, si sofferma sulla condizione di disagio esistenziale e sgomento smarrimento dei profughi trascinati dalla diaspora oltre i confini di quella terra a loro appartenuta per secoli, che ritenevano la loro Patria), “Il bosco di acacie” (terzo ed ultimo capitolo di “Trilogia istriana”, in cui, nel contesto di un più pregnante lirismo, nella realistica descrizione del paesaggio, s’innesta l’osservazione attenta della vita irta di fatiche dei contadini istriani nella loro “nuova” terra, con i relativi, indispensabili risvolti interiori), “La quinta stagione” (incentrato sulla vicenda di Stefano Markovich, immagine speculare dello scrittore, inserita nel contesto della seconda guerra mondiale, e sull’elaborato processo di maturazione, raggiunto attraverso le più tristi esperienze, descritto con toni delicati e pervaso da una grazia sottile), “L’albero dei sogni” (premio Viareggio nel 1969, una delle opere più significative di Tomizza e dell’intera produzione letteraria italiana del dopoguerra, in cui si compie il tragico destino di Stefano Markovich, e si assiste ad una sorta di sintesi storica, ideologica, religiosa, morale della tragedia istriana, scritta con minuziosa cura dei particolari e, ancora più evidente, scavo introspettivo), “La Torre capovolta” (contenente una serie di brevi monologhi in guisa di ricordi e riflessioni, come i vari livelli di una simbolica torre, esplorati a rendere la verità del suo pensiero, al di là delle interpretazioni, spesso, contraddittorie e distorte della critica), “La città di Miriam” (incentrato sulla splendida figura di una donna ebrea, della sua storia d’amore nella città di Trieste, e sulla sua forte carica simbolica salvifica), “Dove tornare” (romanzo sotto forma epistolare, rivolto ad una figura femminile nella quale l’autore rispecchia le proprie inquietudini e contraddizioni; lo stile ed il pensiero assurgono a livelli di notevole maturità), “La finzione di Maria” (rielaborazione storica di un manoscritto cinquecentesco, che mostra un groviglio di vicende sullo sfondo della lotta religiosa tra Riforma e Controriforma, e punta il dito sulla perversità dell’Inquisizione, sulla disperata lotta degli umili per inseguire le loro illusioni), “L’amicizia” (accurata indagine sulle realtà contrapposte, tra Trieste e la provincia, basata su una storia d’amicizia negli anni ’50), “Trick, storia di un cane” (una sorta di fiaba a lieto fine, innestata su un evidente realismo sociale), “Vera Verk” (dramma contenente le fondamentali componenti della tragedia greca), “La miglior vita” (considerato il capolavoro di Tomizza, complessa simbologia, intrisa di lirismo, dell’epopea quasi mitica della civiltà contadina, alla dignitosa ricerca di una, quasi utopica, vita migliore), “Ieri un secolo fa” (raccolta di racconti sulle tematiche delle radici, dell’esodo, della riconciliazione, pregna di sentimenti contrastanti), “Poi venne Cernobyl” (in cui le motivazioni, diciamo ecologiche, si fondono con i complessi rituali della vita e della morte, con la rilevante volontà di sopravvivenza dell’uomo), “Destino di frontiera” (dov’egli confessa la condizione sofferta della propria solitudine ed emarginazione, mitigate dalla sua estrema coerenza), “Alle spalle di Trieste” (contenente una quarantina di racconti, che tracciano un necessario itinerario politico, culturale e narrativo, teso a liberarsi delle scorie ingombranti del passato), “L’ereditiera veneziana” (storia reale, incentrata sulla figura di Polina Rubbi, vissuta nel ‘700, quasi un giallo che conferma la necessità di verità di Tomizza), “I rapporti colpevoli” (dal netto piglio autobiografico, oscillazione ininterrotta fra trasgressioni e pentimenti, tra fughe e ritorni, in cui fortissima è la componente psicanalitica), “Il male viene dal Nord” (sulla lotta tra riforma luterana e controriforma cattolica nel ‘500, con la lunga scia di sangue che ne seguì), “Gli sposi di via Rossetti (complesso intrico di mistero, una sorta di giallo intriso di pathos, incentrato sulle passioni e la follia), “Dal luogo del sequestro” (romanzo del genere epistolare, a tinte forte, che si approfonda nei mali quotidiani e nello squallore umano), “Franziska” ( sulla delusione d’amore della protagonista, una ragazza “di frontiera” che da il nome al romanzo, cui il destino annulla la gioia di vivere e di sognare), “L’abate Roys e il fatto innominabile” (ambientato ancora nel cinquecento, narra la vicenda controversa e dissacrante di Alessandro Roys, attaccando -nel contempo- gli atteggiamenti prevaricatori delle varie strutture istituzionali, laiche e religiose), “Nel chiaro della notte” (volume di racconti diviso in tre parti: “Frontiere, “Vita d’esilio”, “Capricci”), “La visitatrice” (l’ultima opera di Tomizza, romanzo scritto con quieto disincanto e dalla eccezionale carica simbolica), “La casa col mandorlo” (pubblicato postumo, autentico testamento spirituale di Tomizza, nel quale sono riassunte le linee fondamentali del “male di vivere”, paragonate simbolicamente al mandorlo che, sradicato e trapiantato, sopravvive ma non produce più frutti). Nel saggio di Aliberti, dunque, in un percorso molto ben articolato ed avvincente, vi è tutto un susseguirsi di lucide annotazioni ed esemplari spiegazioni delle motivazioni che sono alla base della scrittura di Fulvio Tomizza e della sua naturale evoluzione, in rapporto alle fitte problematiche esistenziali ed ai frequenti drammi che caratterizzarono la sua esistenza di “scrittore di frontiera”. Egli fu sempre in titanica e perenne lotta con se stesso, senza balsami di requie od ombre di sollievi (se non transitori), al fine di trovare una identità precisa nella quale collocarsi, un luogo definitivo in cui vivere, una società ideale alla quale integrarsi, dei ricordi concreti a cui riferirsi. Il violento strappo, subito assai precocemente, aprì vaste lacerazioni nelle sensibili fibre dell’anima dello scrittore, e da quel momento egli tentò, in ogni modo, di ricucire le ferite sanguinanti, che però sempre si riaprivano -senza ombra di soste- segnandolo di cicatrici dolorosissime. Solo la scrittura, in qualche modo, riuscì a lenire -come una miracolosa medicina spirituale- le piaghe che ne rallentarono – pur senza arrestarlo- il cammino. Errante per sentieri confusi, sbandato da interrogativi pressanti, Tomizza vagò ininterrottamente, sondando i sottosuoli grigi del proprio io –quasi mistico rabdomante- alla ricerca -in definitiva- di un’agognata oasi di pace, specialmente interiore, nella quale fare scorrere in modo lineare il corso del suo umano esistere, al riparo dagli incubi ricorrenti di un passato sofferto, lontano dalle malinconiche nebbie che confondono il volo dei pensieri, aspirando a un futuro di quieta serenità, di semplice abbandono a quelle minuscole gioie quotidiane che trovavano proprio nella loro precarietà le ragioni che ne accrescevano l’importanza a dismisura . Aliberti, e qui sta la sua abilità principale, spogliatosi umilmente della propria immagine, si cala integralmente, senza sforzo apparente ed equilibrismi manieristici, nei panni dignitosi ma scomodi dello “Scrittore Contadino”. In un processo di spersonalizzazione e contemporaneo introiettamento del vissuto tomizziano, avviene la straordinaria creazione di un nuovo soggetto: lo scrittore Tomizza che racconta se stesso usando le mani (e il cuore!) del saggista Aliberti. Così il siciliano si trasforma –novello Fregoli- nel triestino, e di costui condivide i dubbi e le inquietudini, proponendosi efficacemente nel ruolo di esperto analista nei confronti di una figura che proprio dalla complessità trae indispensabile linfa vitale per assurgere al ruolo di autentico protagonista della narrativa italiana e mondiale (giova ricordare che le opere di Tomizza sono state tradotte in ben 15 paesi). Aliberti si dimostra così saggista molto “sui generis”, ben lontano dalla stereotipata figura del freddo espositore, conscio del fatto che per dissertare in modo convincente e veritiero di un altro Autore è necessario –prima- “diventare la medesima persona”. Con fare incessante (e, perché no, devoto) scompone delicatamente le tessere del grandioso e variegato mosaico tomizziano, ne osserva le superfici occultate, le facce di contatto, quindi le ricompone, dopo averne assorbito completamente l’essenza artistica e la sconvolgente interiorità. Ed eccolo così soffrire insieme a lui per lo sradicamento violento dalla amata terra natale, albero dalle radici mozze, percosso dalle tempeste della vita, sperduto in aneliti di ritorno e tentativi disperati di adattamento; straziarsi di insostenibile pena per la perdita degli affetti più cari, girovago in deserti di solitudine devastante; smarrirsi, senza punti di riferimento precisi, in mezzo alle cupe atmosfere della crisi di identità tra culture diverse e tra loro avverse, macerato dall’accorgersi della futilità dei processi di integrazione; avvertire tangibilmente l’inquietante sensazione di essere sempre in prima linea, in una guerra diuturna che miete vittime copiose senza rumori di battaglia; lottare strenuamente per tentare di allacciare appaganti rapporti interpersonali, e rendersi conto della vanità di ogni –pur considerevole- sforzo; confondersi sbandato nella ricerca di origini sempre più sbiadite, forse solo immaginate nei sogni di vite precedenti; meditare sensibilmente sui complessi e fondamentali rapporti con l’universo femminile, imprescindibile simbolo volto al sacrificio salvifico. Ed ancora, desiderare (e forse temere) una sorta di confronto chiarificatore con Dio, nella controversa (e mai risolta) aspirazione al conforto della Fede; angosciarsi, senza soluzione di continuo, nella titanica, eterna lotta tra bene e male, nutrita dalle sofferenze e dalla fragilità dell’uomo che, forse, unicamente nella morte può trovare le risposte sempre cercate e la sublimazione definitiva, in una risolutiva catarsi a lungo attesa. Carmelo Aliberti, con questa riuscitissima opera di saggistica (che si può tranquillamente considerare un avvincente romanzo biografico), ci consegna un quadro estremamente nitido ed innegabilmente completo di Fulvio Tomizza, dando a chiunque si accosti al prezioso volume, dopo una lettura assolutamente piacevole e coinvolgente (invero assai rara negli scritti di critica letteraria), la precisa convinzione di avere compreso in modo totale sia l’uomo sia le ragioni autentiche del suo scrivere, per mezzo del quale è riuscito ad oltrepassare “la frontiera dell’anima”, raggiungendo il meritato premio dell’eternità.
Giuseppe Risica