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LA NARRATIVA DELLA SCRITTRICE BARCELLONESE LILIA D’AMICO,DI CUI E’ USCITO DA POCO IL QUARTO ROMANZO “ANATOMIA DI UN ROMANZO”; E’ GIA’ UNA ALTA E NUOVA VOCE DELLA LETTERATURA ITALIANA DI OGGI

L                                                                      ilia D’Amico                                                                  Giovanni Calamuneri

Ritratto della scrittrice

Lilia D’Amico nasce a Barcellona Pozzo di Gotto (ME), l’8 giugno  1951, in una famiglia dove si respira aria di umanesimo liberale e democratico con evidenza di una intellettualità religiosa per niente  in contraddizione  ad una aperta  dialettica  tra spirito laico e spirito religioso.

 Dal padre, l’avvocato Giovanni D’Amico, vivamente  impegnato in intensi anni di attività professionale e  politica a Barcellona e a Messina, assorbe  le sottigliezze dell’arte retorica e comunicativa  e uno stile di vita,  inteso come missione e impegno civile, dalla  madre, la signora Hilda Genovesi, l’amore per il bello ed una stimolante apertura alla modernità, pur nel rispetto dei valori della tradizione e della sicilianità.

 Gli anni della sua formazione la vedono studentessa del  Liceo-Ginnasio  Luigi Valli, dove coltiva la sua passione per la letteratura, per la filosofia, per le buone letture e per la scrittura.

  La sua naturale inclinazione all’introspezione la porta ad intraprendere ed approfondire  studi di psicologia iscrivendosi alla facoltà di Filosofia dell’Università di Messina ed  elaborando un piano di studi psico-pedagogico.

Nella vita il suo lavoro è stato quello di madre di famiglia e d’insegnante di italiano e latino che ha svolto nella consapevolezza della sua alta missione di formazione umana e culturale di giovani dal pensiero critico, non suscettibili, quindi, ad alcun tipo di condizionamento. Nei suoi anni d’insegnamento realizza corsi di scrittura creativa, attività teatrale su copioni elaborati dagli studenti, cortometraggi su copioni elaborati dagli alunni.

Dopo il pensionamento, decide che è arrivato il momento di dedicarsi alla scrittura.

 Nel 2016 pubblica il suo primo romanzo Il passato non ha un volto edito da Giambra editori, nel 2020 Il riflusso  dell’onda  Etabeta  Edizioni  EBS Print, nel 2021 Il grido dei gabbiani Etabeta  Edizioni  EBS Print, nel 2023Anatomia di un romanzo Etabeta  Edizioni  EBS Print

                      Il passato non ha un volto (2016)

Il romanzo Il passato non ha un volto  della scrittrice barcellonese, Prof.ssa Lilia D’Amico, è il romanzo d’esordio di un nuovo genio creativo del nostro territorio, della nuova narrativa siciliana, sulle orme dei più recenti grandi autori che riuscirono ad innalzare il livello creativo e culturale della nostra isola a primeggiare in una splendida fase di valorizzazione del romanzo.

Le trame dei gialli psicologici della D’Amico sono diverse, come pure i delitti, le motivazioni che li determinano, la collocazione temporale, ma tutte le storie scaturiscono da un motivo oscuro che inaspettatamente affiora sulla superficie del presente e influenza la condizione interiore dei personaggi.

Significativa nelle sue opere è la considerazione sul male. Esso convive nell’individuo, nella società e nella storia, ma  occorre combatterlo senza lasciarsene travolgere.

Per poter conseguire un durevole equilibrio psico-affettivo nelle varie stazioni della vita, bisogna acquisire consapevolezza del lato oscuro che c’è nella creatura umana, dove si annida l’umana sofferenza. Il percorso verso la ricerca della felicità  è difficile, insidioso, ma non impossibile.  

Laura, protagonista del romanzo, è ossessionata da un sogno ricorrente che al risveglio la lascia stremata, tanto che si rifiuta di guardarsi nello specchio, di osservarsi nella profondità dell’io.  Quando lo ha fatto, si è sentita sperduta e sgominata, provando la sensazione di sgretolamento, simile al disfacimento corporale della morte, che per lei significa distacco, separazione da ciò che le è stato caro, e nel contempo è stata ridotta ad una inconsolabile disperazione. La morte la impaurisce e coevamente, inconsciamente l’attrae, forse perché occorre prima morire, per amare la vita. Tale sensazione da lei è stata percepita in seguito alla separazione dal marito. Allora è spinta da un’urgenza di esplorazione del suo passato a squarciare le ombre che hanno oscurato a lungo la visione della verità, conquista indispensabile per poter avviare un percorso di rinascita.

 Questo primo romanzo della debuttante scrittrice evidenzia già il sicuro possesso di complessi strumenti espressivi, applicabili con risultati eccellenti ad ogni struttura organizzativa e a tutti gli ingredienti tematici dell’intreccio del romanzo.

Con il fluire del tempo, la D’Amico ha acuito i già ben collaudati coefficienti comunicativi frutto di molte letture di vecchi e nuovi grandi autori, la sua vocazione narrativa ora è già agguerrita per poter affrontare traguardi più alti.

Prefazione di Marco Tiffi  al romanzo il passato non ha un volto

Il romanzo va letto tutto d’un fiato!

Uno scritto asciutto ed essenziale, sullo sfondo, incombente, l’irrequietezza di Laura.

Una violenza tratteggiata con magistrale discrezione dall’autrice quasi a manifestare, prima ancora dell’umana solidarietà, un profondo rispetto per la dignità della persona.

 Una vicenda che coinvolge perlopiù la psicologia delle parti non poteva che passare per lo Stretto di Messina.

 Come il confessionale per chi crede o il lettino dello psicologo per gli altri, lo stretto rappresenta lo spazio deputato all’introspezione, il palcoscenico per il redde rationem, ove chiunque vi sia transitato non ha potuto che fare il bilancio della vita, prima, per poi lambiccare sul domani.

 Nel catino naturale dove si condensano e si stringono i più disparati pensieri, nel luogo del trapasso frequentato da questa moltitudine di persone che medita sulla propria esistenza ed esperienza di vita, si manifesta “…il momento dei bilanci“.

 È  da lì che si genera e prende corpo l’idea di Laura di veder chiaro e, con moto introspettivo, illuminarsi: arrivare alla meta e dipanare ogni ombra relativa al delitto è l’unico modo per ritrovare non tanto il senso  alla  sua vita, ma il senso delle cose.

 Un romanzo che ruota attorno più alla psicologia dei personaggi, che agli avvenimenti delle loro vite.

Il romanzo pertanto si rivolge ad un uditorio variegato, dove chiunque, sfogliando queste pagine,  può veder in Laura l’assoluta fragilità della condizione umana legata ad un concreto e bifronte cliché di ciò che è e che deve essere da un lato,  e di ciò che dovrebbe essere, dall’altro. 

 Il lettore, al pari della protagonista, non può che registrare il passare del suo tempo per guardare il non volto del passato con una nuova prospettiva.  Come Laura, potrà render proprio il concetto dell’indispensabilità di un legame interpersonale o familiare, ma soprattutto territoriale, pur  con le sue contraddizioni,  peculiarità, con i suoi movimenti lenti verso un cambiamento epocale.

 Dal testo  traspare volutamente il forte legame con la terra siciliana: l’utilizzo di toponimi e locuzioni tipiche, il valorizzare vocaboli con didascalica precisazione rendono il romanzo territorialmente radicato.

Il romanzo, pertanto,  non è solo un viaggio nella psiche della  protagonista ossessionata dalle sue nevrosi, ma lo specchio di un’epoca in transizione.

Le problematiche, anche quando sembrano riferite ai singoli,  rivelano sempre la lacerazione  di un trapasso epocale con particolare riferimento alla Sicilia e che mette in discussione il ruolo della donna, la carriera, la famiglia, il matrimonio.

 L’indagine coinvolgente su un “ giallo” da risolvere diventa il motore di osservazione di ambienti e paesaggi,  personalità,  rapporti, psicologia dei personaggi, sfiora temi scabrosi, purtroppo sempre di grande attualità  e  pone dubbi di coscienza. Il messaggio del romanzo però non è negativo. Illusioni, miserie, sacrifici, sconfitte anche se coinvolgono tutti i personaggi,  attraverso un’analisi introspettiva divengono presupposto di aspirazione concreta  alla libertà e ricerca della felicità.

                         Il riflusso  dell’onda ( 2020)

Helga e Vanni appartengono a due mondi completamente diversi, ma sono legati, per un gioco del destino, da un invisibile filo di cui non vedono né inizio né fine.

Helga vive a Monaco di Baviera, sta per laurearsi in giurisprudenza, ma coltiva una forte passione per il giornalismo. 

Vanni è un giovane uomo ebreo di 35 anni, vive a Milazzo, in Sicilia e opera nel mercato ittico.

Miracolosamente tornato da Auschwitz assieme alla madre, non ricorda niente del lager perché troppo piccolo, ma non è in grado di distaccarsi dal continuo senso di colpa di essere un sopravvissuto.

Quando Helga deciderà di andare a trascorrere le vacanze estive a Milazzo, spinta dalla curiosità di indagare sulle cause di una strana telefonata, le sorti dei due giovani s’incrociano.

Il riflusso dell’onda è un romanzo giallo dal tocco insolito.

Il dramma dei due giovani si sviluppa, in successione crescente fino alla toccante conclusione, attraverso una scrittura avvincente e stilisticamente compiuta.

 La scrittrice affronta temi di crudo realismo con speculazioni introspettive e ricchezza di simboli onirici, senza venir meno alla delicatezza e alla sensibilità psicologica che caratterizzano la sua prosa.

Vanni e Helga, i protagonisti del romanzo Il riflusso dell’ondavivono una tragedia che risale al campo di concentramento di Auschwitz. Helga non sa di essere figlia di una nazista e vive a Monaco di Baviera. Vanni si sente perseguitato da un sentimento di colpa per essere sopravvissuto insieme alla madre, mentre il padre e il fratello maggiore sono morti. Del lager non ricorda niente, ma incorpora nella sua mente gli incubi della madre. Una agghiacciante rivelazione devasta il destino e quello di Helga e per sottrarsi ad un tragico passato che corrode la sua psiche, medita la vendetta. Il riflusso dell’’onda induce a riflettere sullo scompaginamento psicologico che la Shoah ha scatenato non solo sui sopravvissuti ai campi di sterminio, ma anche sui figli dei sopravvissuti e sui figli dei nazisti boia della soluzione finale.

Vanni e Helga, figli di vittime e carnefici, sono uniti da un comune destino di sofferenza a causa di un trauma, dilagato oltre l’epoca dei genitori. Solo una lunga e sofferta elaborazione del perdono, senza però dimenticare, permetterà ai due innocenti, di perdonarsi, di liberarsi dal senso di colpa, della vergogna e del rimorso per poter iniziare una nuova vita.

Recensione di Marco Tiffi

Dopo “il passato non ha un volto”, eccellente saggio sull’introspezione psicologica dell’essere umano, rappresentato per mezzo dell’analisi dei sentimenti, dei desideri e soprattutto dell’identità dei personaggi, l’autrice sterza con decisione nella redazione di   un romanzo da un’accentuata caratterizzazione storica. Il tema della  shoah,  infatti,  fa da sfondo ad un particolare  romanzo giallo ambientato nel 1980.

Ci sono centinaia di documenti e testimonianze sullo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti durante la seconda guerra mondiale, ma Il riflusso dell’onda non è un romanzo documentario.

Non è certo facile parlare di Shoah senza  interrogarsi su  ciò che era stato scientificamente programmato e poi  su quanto  avvenne nei campi di concentramento nazisti, ma la scrittrice  va  oltre,  alle ripercussioni dei sopravvissuti, dei figli dei sopravvissuti, alla vita che avrebbe dovuto riprendere e in molti troppi casi  non è ripresa, con un imperativo morale ben chiaro “ E’ accaduto e  può ancora accadere”.

 Il  passato di orrore che è stato la shoah, si ricrea   attraverso i simboli onirici dei sogni da incubo dei protagonisti,  attraverso immagini sfocate, rumori, stati d’animo, oggetti,  volti che non riescono a trovare una precisa definizione, ricordi non ricordi.

I protagonisti viaggiano attraverso mondi interiori diversi e diversi piani temporali che s’incrociano  o si dissolvono per poi riaffiorare  alla ricerca di sé.

 Nel romanzo si parla di alcune chiese, di  San Ludovico, di San Michele, dell’affresco di Peter von Cornelius che rappresenta Il giudizio universale, della Chiesa rupestre di Sant Antonio da Padova e non si può fare a meno di chiedersi quale sia il rapporto di Helga e Vanni con la fede e poi meditare sul nostro rapporto con Dio.

Primo Levi ha detto “  C’è Auschwtz e dunque non può esserci Dio”.

È un macigno sulla coscienza dell’uomo la questione dell’assenza di Dio.

Nel romanzo il rapporto con Dio  emerge lentamente nei personaggi principali,  che sembrano non trovare risposte soddisfacenti al male, nella sua assurdità etica, umana, storica, teologica.

Il rapporto di Helga con la religione si caratterizza inizialmente come abitudine,  abitudine rassicurante però, come rassicurante è la presenza nella sua vita dei genitori.

  Si fece il segno della Croce e si chiese quale potesse essere la Croce  nella vita di ogni giorno.

Pensò alle giornate  trascorse nell’ultima settimana.

 La croce era forse in tutte le grane del quotidiano, nei  fastidi,  negli imprevisti poco opportuni. Era anche nella crisi dei rapporti, nelle delusioni, nell’asperità della vita.

 Pensò a  Fred e si disse  cheera arrivato il momento di lasciarsi alle spalle un rapporto che ormai le procurava solo dispiacere. Doveva ammetterlo, si era rivelato un abbaglio, un grossolano abbaglio.

Si rifece il segno della Croce, ma  non riusciva a concentrarsi nella preghiera, dietro l’altare maggiore il grande affresco di Peter von Cornelius  attirava la sua attenzione.

<< Ci sarà mai un Giudizio Universale?>> pensò, << e quali potranno essere le pene per  i crimini contro l’umanità?>>

 I suoi occhi  si soffermarono sulla veste bianca del Signore drappeggiata sulla spalla sinistra, sul petto nudo, sulle braccia aperte, sulle mani tese ad accogliere e a respingere e senza capire il perché provò un brivido.

Che cosa le stava succedendo. Rivolse il pensiero ai suoi genitori. Se n’erano andati  senza che lei fosse riuscita a manifestare  i suoi sentimenti.

 Fuori casa era loquace, parlava per ore con colleghi e amici, si accalorava in dispute di ogni genere, difendeva con sciolta dialettica il suo punto di vista. Nei loro riguardi, invece, era diventata avara con le parole. Le misurava, le centellinava, quasi facesse fatica a pronunziarle, un dannato  riservo le  impediva di condividere  il suo mondo interiore.

Eppure quanto era stata importante nella sua vita  la loro presenza!  Erano lì, solidi, affidabili, approdo e porto sicuro, con i loro gesti,  parole, sguardi rassicuranti,  anche quando non erano rivolti a lei. Prima tutto era scontato, non  c’era bisogno di parole e adesso …

  <<Che devo fare, mamma?>> disse, come se la madre potesse ascoltarla.

Solo dopo  perdita dei genitori inizia a  percepire il mondo come poco rassicurante,

 inizia a vacillare, si accorge che nella vita di ogni giorno c’è una Croce quotidiana da sopportare, ma senza i  genitori a sostenerla è dura.

 Alla domanda da parte di Helga rivolta a Vanni “ Sei credente?”, lui in un primo momento risponde “Appartengo ad una famiglia ebrea non praticante “ , poi chiarisce meglio “ Vuoi sapere se credo? No, io non credo in Dio”.

Vanni passa quindi, dal non praticare al non credere,  ma è  la  perdita della fiducia nei rapporti umani che si rispecchia nella perdita della fede in Dio.

Nel romanzo Dio, però, lo troviamo nel racconto della madre dell’ultimo periodo trascorso ad Auschwitz.

Nel lager ogni cosa continuava ad essere  imbevuta di lerciume e perfidia: le enormi e insormontabili mura, il filo spinato con i suoi aculei avvelenati, il denso e sinistro fumo dei forni, il puzzo dei duri giacigli, la morte dispensata con un  gesto, ma io mi accorgevo che qualcosa in lei si stava smuovendo e che forse  iniziava a percepire di avere una  coscienza.

Sono riuscita a nascondere la gravidanza fino al parto che avvenne una notte del  dicembre del ‘44 nel freddo del  capannone.Ero terrorizzata dal fatto  che  saresti potuto nascere morto.  Il parto fu, invece,  estremamente veloce, più veloce dei  precedenti.

Quando per la prima volta percepii il tuo vagito, ringraziai, dopo tanto tempo, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Tutto era andato bene, eri piccolo, ma sano.  Eri la vita ed era stabilito che avresti  dovuto avere la meglio sulla morte.

 Vorrei sottolineare il “dopo tanto tempo”, pronunciato dalla madre. Significa  dopo tanto tempo di sfiducia  nell’umanità, dopo tanto tempo distacco dalla fede, dopo tanto tempo di sfiducia in un Dio che sta solo a guardare o che non c’è.

Poi c’è il primo vagito del figlio in un contesto in cui non può che essere  considerato un miracolo di Dio.  Era la vita ed era stabilito che avrebbe dovuto avere la meglio sulla morte.

Nel romanzo,  dunque,  Dio non è morto, lo troviamo nel racconto della madre dell’ultimo periodo trascorso ad Auschwitz, lo troviamo nella  riflessione sulla Croce  che portiamo noi nel quotidiano, ma che Dio ha vissuto assieme all’uomo nell’inferno dei  lager, lo troviamo in una coscienza che si risveglia in un luogo imbevuto di lerciume e perfidia, lo troviamo infine nel dono divino del perdono al quale si giungerà dopo lunga e sofferta elaborazione.

Mi è molto piaciuta una figura, pur se secondaria, quella di  Henry Miller, anche perché ritengo che trovi perfetta aderenza alla personalità della scrittrice.

Mi riferisco al padre della protagonista Helga: un militare americano giunto in Italia nel periodo della liberazione.

Il padre di Helga  era il suo idolo, il modello di uomo che avrebbe voluto avere accanto a sé come compagno, come marito,   le aveva insegnato ad assaporare ogni momento della vita con entusiasmo, a non lasciarsi troppo condizionare dalla razionalità, ad aprirsi alla gioia dei sentimenti senza riserve, le aveva insegnato la tolleranza, il rispetto per il prossimo,  il perdono, ma non per i nazisti.    Il suo ideale di uomo era molto simile a suo padre: alto, magro, biondo, affascinante, dinamico, anzi scattante. Suo padre amava la città,  il suo lavoro, il contatto con la gente, si schierava contro ogni forma di  ingiustizia e di  sopruso.

In quest’ottica si giustifica il disinteresse maturato nel tempo per  Fred, la persona che le è stata vicina per un tratto della sua vita, ma che non avrebbe potuto condividere con lei i valori che suo padre le aveva inculcato, né avrebbe potuto mai comprenderla. Fred era un uomo freddo, ambizioso, forse anche cinico, capace di vomitare il suo disprezzo verso un barbone in strada.

Nel Riflusso dell’onda  ci sono precisi riferimenti, non solo alla toponomastica della città tedesca, Monaco di Baviera,  ma anche alle sue tradizioni culinarie, in particolar modo alla produzione del cioccolato che non poteva non offrire un perfetto asse di collegamento  per riportare in Sicilia la mente del lettore soffermandosi su Modica.

Magistrale poi il paragone tra la ricerca di “sapori complessi ed insoliti” che rivelano “il desiderio di spingersi verso l’inconsueto, verso traguardi impor­tanti”e la personalità de Helga,  un paragone tra la ricerca di qualcosa di particolare per il palato e qualcosa di speciale per la mente. Così come il paragone tra i vini e gli uomini di Sicilia ed i continui richiami di vecchie tradizioni.

“Aveva programmato di pranzare preparandosi un bel cozzo come quello che aveva visto quella mattina in mano a due ragazzini”.

 E torniamo alla rappresentazione  della Sicilia  in una cornice di luoghi frequentati e ben conosciuti dalla scrittrice .

Si narra di Capo Milazzo, Terme Vigliatore,  Calderà, tutto il Golfo da Barcellona a Milazzo, alle Isole Eolie con riferimento particolare ad Alicudi.

La Sicilia ci appare con le sue peculiari manifestazioni di vita quotidiana, ove la calma regna tra le persone: nessuno corre, nessuno è infastidito  e sembra che tutto sia sollevato da terra di un metro.

Il mercato del pesce con l’asta, la granita obbligatoriamente da assaporare ed ogni ben di Dio: ecco cosa aspetta il turista, uno straniero in terra siciliana. Da subito si avverte la generosità, la giovialità, l’ospitalità del popolo meridionale, la galanteria del servizio di ogni ristorazione, l’acqua fredda (rectius ghiacciata) che in una terra dove in alcune zone scarseggia, ti vien donata anche se consumi un solo caffè. Anche questa è la Sicilia.

Ottima infine la scelta stilistica della scrittrice, esperta nell’arte di calibrare, pesare le parole, nell’arte del contenerle, per lasciare spazio all’esplorazione tra le profonde pieghe della psiche umana.                                                                              

                           Il grido dei gabbiani (2021)

Dopo 15 anni di detenzione, Tano esce dal carcere dell’Ucciardone.

 Un dramma ha marchiato la sua esistenza, l’ha svuotato di ogni  sentimento, anche negativo, è solo desideroso di allontanare da sé per sempre “l’episodio” che ha avuto  enorme risonanza nella cittadina di Milazzo e che ha costretto la sua famiglia ad allontanarsene.

Ma la sua vita, come quella della moglie Elena e dei figli, Pino, Giacinto e Viola, è legata indissolubilmente a quel passato che ha scatenato pericolose conseguenze e con cui tutti, ben presto, dovranno fare i conti. 

Nella narrazione, condotta con maestria,  si dà voce ai vari personaggi che risultano tutti protagonisti, dotati di profondità, ricchi di sfaccettature; l’autrice ce li fa scoprire lentamente, capitolo dopo capitolo, con le loro fragilità, positività, attraverso complesse dinamiche familiari.

Ne risulta un romanzo corale che ruota attorno al primo protagonista, Tano, in un legame di intrecci, di fatti intriganti da scoprire, tra passato, presente e un futuro ancora a venire. 

Anche in questo romanzo l’autrice scandaglia gli aspetti più oscuri della psiche umana, costruendo un giallo psicologico di forte empatia, dalla trama avvincente fino ad un intenso finale da impatto visivo quasi filmico.

La vita  di  Tano, rispettabile gioielliere di Milazzo, come quella di sua moglie Elena e dei suoi tre figli, Pino, Giacinto e Viola , è sconvolta dall’assassinio di Filippo Bonfoglio di cui Tano si accusa.

Il romanzo inizia con il forte disorientamento  di Tano, che, dopo tanti anni di detenzione, esce dal carcere dell’Ucciardone, a Palermo.

Subito il lettore viene catturato dalla cruda e brutale realtà del carcere, nel quale Tano ha scontato 15 lunghi anni: ne è entrato a 45 anni e ne sta uscendo a 60.

Fuori dal carcere, Tano si troverà in un mondo che non riconosce, che è cambiato rispetto a come lo aveva lasciato anni prima,  capisce che la tanto agognata libertà non sarà  poi così facile da affrontare,  deve per forza fare i conti con il suo passato, al quale aveva chiuso la  porta.  Aveva voluto  lasciarlo indietro e non si era reso conto che era divenuto  uno spettro  alle  spalle sue e dei suoi cari. 

 Si sente preso dallo sconforto in una realtà che non riconosce più,  che sembra non appartenergli. Solo chiudendo gli occhi la ritrova, riconosce l’ambiente di Vaccarella, vede il banchetto di legno sul marciapiede con la pesca del giorno ancora viva viva, osserva con tenerezza  i suoi due bambini, Pino e Giacinto , con gli occhi sgranati che allungano la mano per toccare i pesci  ed a ogni guizzo la ritraggono con un gridolino. Questa sensazione è di breve durata, Milazzo attorno a lui ritorna estranea, le case, le piazze, le vie, i palazzi, i passanti che indossano nuovi vestiti, le auto moltiplicate e mutate nella forma e nei variopinti colori, lo fanno sentire a disagio nei luoghi che un tempo gli erano familiari.  La sua villa è invasa da lunghi e ingarbugliati rami, da foglie disordinate e cadenti, la sua piscina da un mare di terra, foglie secche e spazzatura, ma estraniandosi,  riesce a sentire il vocio e i risolini dei suoi tre  bambini, in fila sul bordo, che si tuffano buffamente e le lodi della moglie che in acqua li sostiene via via che emergono.

La scrittrice rappresenta i turbamenti e le emozioni di Tano, ne fa intuire il drammatico logorio interiore alla costatazione che le antiche ville del Capo di Milazzo, splendide nei loro decori liberty, identiche a come le aveva lasciate spalancavano le imposte ad un giardino dal verde rigoglioso, a un presente dal quale lui era escluso. Quell’angolo di Milazzo era rimasto immutato nel tempo, perché aveva continuato la sua corsa indipendentemente da lui ed era il presente. Lui era il passato.

Illuminante è la parentesi che la scrittrice apre sull’infanzia di Tano che  appare felice, fin quando s’intravede il dissidio con un padre che costruisce per il figlio una vita improntata a sua immagine e somiglianza e  ne dà per scontata  l’osservanza. Ma Tano crescendo, si sente un corpo estraneo,  in contrasto all’ambiente familiare ed esterno;  la sua sofferenza è tale da disconoscere la sua omosessualità, questa è la sua  difesa, ha paura e finisce per  precipitare in un dualismo dell’animo  legato a quel che è e quel che vorrebbe essere.

Quest’atteggiamento perdurerà fino al suo matrimonio e condizionerà l’equilibrio dei figli e della moglie.

Con suprema e inimitabile maestria nella progressione creativa, la scrittrice ci  presenta il processo di disgregazione degli affetti familiari che maturava da tempo.

 Pino, abbandonato dalla madre, che aveva sempre creduto nel suo ingegno artistico  di musicista, perde la fiducia  nelle sue capacità e “si lascia andare alla deriva, annullandosi nell’apatia”. Giacinto crede di aver superato la sofferenza che, invece, è acquattata in un angolo buio della coscienza, come un trauma che lo spinge a soffocare ogni sentimento per paura di soffrire. Viola, ossessionata da un sogno frequente, si sente perseguitata dal destino, delusa dalla madre, tradita dai genitori  che  l’hanno abbandonata quando ancora era bisognosa delle loro cure; si lascia così andare  a comportamenti incontrollati e non trova pace in nessun luogo, nemmeno affidandosi alle cure di uno psicologo.

Con un’abile strategia narrativa spontaneamente maturata, senza forzature cervellotiche, il dramma si è trasformato in tragedia la quale supera gli stentorei modelli della tragedia greca e crea il simulacro più attuale della tragedia moderna. Il proscenio dove si consuma la tragedia contemporanea è la materializzazione del dolore sul palcoscenico della coscienza lacerata dall’angoscia e dall’amore inespresso.

 Il linguaggio della D’Amico è  sempre “aereo”, “volatile”, quietamente delicato, come un dolce comunicare, sia nelle accurate scelte terminologiche, sia evitando vocaboli e forme verbali rudi e aggressive, insomma le circostanze e le persone che le  stanno di fronte, richiedono un mielifico timbro di voce e un risuono ovattato delle parole, per non far soffrire il diverso, che invece deve essere trattato con normalità per non aggravare il suo stigma interiore, anzi per farlo sentire normale, per non far crescere l’angoscia ai sofferenti che hanno bisogno di un anelito d speranza.

 Qui emerge l’elevata azione formativa della D’Amico, che naturalmente è predisposta alla gentilezza e all’uso di un linguaggio adeguato per comunicare con simili creature.  Ne deriva una conduzione narrativa lieve, semplice e veloce che acquista un fascino fluido nello sgranare del discorso che potrebbe essere difficile, ma non lo è, grazie alla ricca e variegata faretra verbale e all’intuizione psicologica della scrittrice.

In quest’opera la scrittrice ha voluto compiere lo sforzo di narrare la verità,  in una società fortemente condizionata dalla cultura dominante perché questo è anche il compito dello scrittore. Ma la ricerca in assoluto, come afferma la scrittrice in una sua intervista,  non esiste e se l’uomo si illude di averla trovata, ne rimane deluso, perché essa non si presenta netta, ma con mille sfaccettature  per cui il ricercatore della verità in assoluto, rimane deluso e dubbioso. Allora non resta altro che cercarla  nella propria interiorità, nei valori soffocati che possano procurare benessere come  gli affetti, la famiglia, la fede, la terra, l’arte, il bello. In tal modo ciascuno potrà trovare il proprio equilibrio interiore che gli permetterà di raggiungere la felicità e contribuire al miglioramento della società.

 Pino, Viola e Giacinto, dopo tanto vagare , troveranno la via di salvezza nella  loro terra, nella loro casa, lì si concluderà il loro viaggio, nel  luogo dove tutto è iniziato, lì riusciranno a guardare finalmente in faccia la verità, capiranno ed accetteranno la  realtà della loro famiglia, costruita sul dolore di un padre  omosessuale, ma estremamente amorevole, sulla disperazione di una madre che ha tanto sbagliato, ma anche tanto sofferto. 

 Ora sentiamo il dovere di proporre all’attenzione dei lettori alcune fondamentali pagine per far loro assaporare la splendida bellezza e la dimensione interiore dei personaggi e di alcuni eventi molto emblematici e formativi, più di quanto le mie parole potrebbero incidere.

Cap. 1,  pag. 7 – 12.

Fra non molto sarebbe stato fuori. Dalla grata della finestra i primi raggi di luce rischiaravano il grigio delle pareti.   

    Il suo compagno dormiva a pancia in su, con la bocca aperta da cui fuoriusciva uno strano alito cattivo.

   <<Poco si differenzia dal puzzo della cella, non mi dà fastidio>>, si trovò a pensare.

   Nemmeno il suo russare a singhiozzo gli dava fastidio, si fondeva col ritmo  dei suoi pensieri.  

    Si sarebbe lasciato alle spalle l’odore di umido che lo aveva accompagnato negli ultimi quindici anni, avrebbe respirato l’aria della libertà, avrebbe avuto una nuova dimora con porte e finestre che si aprivano.

  <<Ripigghiati a to vita>>, gli aveva detto Cotugno la sera precedente.

     Sì, avrebbe potuto nuovamente disporre della sua vita. Eppure non esultava.

    Quella notte non aveva chiuso occhio, non per l’agitazione dell’attesa, ma per la paura di non farcela.

     I primi tempi di reclusione era sempre spaventato. Era continuo oggetto di aggressioni verbali e battute serafiche sulla sua forza fisica, sul suo coraggio, sul suo essere “signorino”. Non rispondeva mai alle provocazioni. Sapeva di essere senza difese. Odiava la violenza e cercava di apparire il meno possibile. In carcere, però, non era facile,  si aspettava da un momento all’altro che qualcuno l’aggredisse. Le occasioni certo non mancavano. Chiunque avrebbe potuto picchiarlo, sodomizzarlo, ridurlo in brandelli e lui non sarebbe stato in grado di difendersi. E poi accadde. Era una bella giornata di primavera. Il sole riscaldava quell’angolo di cortile e lui con le spalle al muro, cercava calore fumando una sigaretta.

    “Bambolina perché mi sfuggi e non sei gentile con me” disse un energumeno quasi il doppio di lui.

    <<Non fare il difficile>>, continuò bloccandolo al muro e chinandosi a dargli un bacio sulla bocca. Tano cercò di dimenarsi, per sfuggire alla presa.

    Tutt’attorno, un gruppetto di detenuti si godeva la scena e una guardia carceraria osservava distratta senza la minima intenzione di intervenire.

    <<E no, bambolina, così non si fa>>.

    Fu immobilizzato da un’enorme massa muscolare e colpito con violenza in testa. Tutto prese a girare  e cadde in terra tra le risate generali.

    <<Che sta succedendo>>, disse il secondino avanzando verso il gruppo.

    Cotugno, il suo compagno di cella, scuro in viso, cercava di aiutarlo a rialzarsi.

    <<Nenti succidiu, non succidiu nenti,  sciddicò e sbattiu a testa, ma ora sta passannu. È veru che sta passannu?>>

    Tano a fatica si mise in piedi e asserì col capo.

    <<Non ti moviri i cca. Ora tonnu>>.

    Cotugno si avvicinò all’energumeno e senza muovere mano o sopracciglio gli parlò per alcuni secondi. Da quel giorno non fu più disturbato.

     I rapporti con Cotugno non cambiarono di molto. Parlavano poco entrambi. Le giornate trascorrevano scandite dagli orari del carcere, a volte scombussolati da tristi vicende di sangue.

    Sì, i primi anni erano stati terribili, un uccello rinchiuso in una gabbia del tutto estranea al suo essere. S’identificava con la macchia di umido sulla parete dove poggiava la sua branda. Alzava gli occhi e vedeva un uccello con le ali aperte.

     Adesso quell’uccello era pronto a spiccare il volo, aveva agognato questo momento per lunghissimi quindici annie ora, inspiegabilmente, aveva paura. Aveva varcato la soglia del carcere a quarantacinque anni  ed adesso ne aveva sessanta.

    Il momento del commiato era arrivato. La guardia  era loquace come non mai, sorrideva e lo invitava ad uscir di cella.

    Cotugno lo abbracciò più e più  volte. Proprio non se l’aspettava. Negli anni che avevano trascorso insieme in nessuna circostanza si era lasciato andare alle emozioni. Freddo e compassato in ogni situazione, mai aveva dimostrato alcun cedimento.

    <<Ci rivedremo fuori, non tarderò ad uscire>>, disse Cotugno in un insolito italiano corretto, accennando un sorriso e sapendo di mentire.

    <<Certo, ti aspetto>>, rispose sapendo che non si sarebbero più incontrati.

    Lanciò un ultimo sguardo alle pareti, salutò silenziosamente la sua macchia-uccello e oltrepassò la porta della cella.

    In corridoio procedeva in un leggero stato di confusione, la guardia continuava a parlare, mentre indistinto giungeva, dalle porte aperte delle celle, il parlottio degli altri detenuti.  Si sentì apostrofare e salutare. Lo facevano sempre quando qualcuno lasciava il carcere.

    Improvvisamente non vide più le bocche sdentate e ghignanti che gli avevano suscitato tanto timore, i tatuaggi ostentati sulla pelle bianca o nera, le unte code di cavallo, gli occhi sottili come fessure. Stava lasciando alle spalle degli sventurati. Di quei momenti avrebbe ricordato solo i cigolii delle porte e lo stridere delle chiavi nelle serrature che si aprivano e si chiudevano dietro le sue spalle.

  La prima cosa che percepì fu il sole. Come lama infuocata lo ferì e strizzò gli occhi. Passarono alcuni secondi prima che potesse riaprirli.

     La sua mente era ferma, esangue,  percepiva  braccia e mani pesanti, serrate da invisibili manette. Provò a scrollarle e lentamente sentì il sangue riaffiorare al cervello atrofizzato da un lungo gelo.  Riprendeva lucidità.

degli alberi al bordo del viale, le tende colorate dei locali, le bancarelle con il pesce, i chioschi, odore di fritto, di panelle, di p     Il mondo esterno gli si faceva incontro. Le macchine che sfrecciavano veloci, i claxon, il zig-zag delle moto, il verde olpo bollito, odore di strada, odore di spazio libero.

    In carcere le dimensioni si ritraevano in spazi circoscritti. Nella loro morsa ogni sogno si frantumava.

   Ogni tanto andava indietro, non alla vita precedente che inglobava famiglia, lavoro, parenti, amici. Con il passato aveva chiuso definitivamente. Si presentavano a lui solo spezzoni di vita, flash di piccoli piaceri o libertà di cui aveva goduto, come un buon bicchiere di Nero d’Avola o una lunga nuotata a largo nel suo mare azzurro, due passi la mattina sul marciapiede prima di entrare in gioielleria e l’irresistibile profumo del caffè e delle brioche calde proveniente dal  bar di fronte.

    Non si era mai soffermato sull’episodio. Era cancellato. Come se non fosse mai accaduto. Non lo riguardava. Non era mai successo.

Cap. 5,  pag. 51-52

Si guardò intorno. Non riconosceva più la stazione ferroviaria. Aveva l’impressione che fosse arrivato in un altro paese, eppure era sceso a Milazzo.  Sollevò  per i manici la valigia in pelle, non pesava molto. Era la stessa con cui era entrato in carcere quindici anni prima e portava i segni del tempo. Si accorse che tutti i viaggiatori facevano uso di trolley che trascinavano comodamente e  il borbottio delle ruote risuonava per tutta la stazione. Si avviò verso l’uscita. Era sbalordito, non si raccapezzava più. Una piazza, circondata dal verde gli si presentava davanti, ma non era la piazza stazione che ricordava.

    Fece cenno con la mano ad un taxi che stava arrivando. Si fermò. Il tassista scese, diede uno sguardo fugace alla valigia, la prese e la mise nel portabagagli.

Tano si accomodò davanti.

     <<Dove desidera che la porti>>, disse il tassista.

    <<Al Capo in via Belvedere n. 20>>.

     <<Sono parecchi anni che manco da Milazzo. Hanno spostato la stazione ferroviaria o ci sono due scali?>>

     <<No, la vecchia stazione è in disuso. C’è solo questa fuori dal centro abitato. Così la città non è più bloccata dal passaggio a livello sempre chiuso e gli spostamenti sono più celeri e sicuri. È venuto a trovare dei parenti?>> continuò desideroso di iniziare una conversazione.

     <<No>>, rispose Tano e non aggiunse altro. 

Cap.5, pag. 56-58

    L’auto gialla imboccò via Belvedere, la percorse per circa un chilometro e mezzo e si fermò di fronte ad un alto cancello che dava l’ingresso ad un vialetto in terra battuta. In lontananza si intravedeva tra il verde degli alberi una villa.

   <<Se apre il cancello, la porto davanti casa>>, disse il tassista.

    <<No, non è necessario, grazie>>.

    <<Come desidera>>.

     Il tassista scese, tirò fuori dal cofano la valigia, prese la banconota che Tano  gli porgeva e fece cenno di dare il resto.

    <<Lo tenga pure>>, disse Tano.

   Il taxi ripartì lungo la strada ammantata di caldo.

    Cercò nella tasca della giacca il mazzo di chiavi che gli era stato restituito al momento del rilascio, insieme ad altri suoi averi. Individuò immediatamente la chiave del cancello. L’infilò nella serratura arrugginita e faticò alquanto prima che la sentisse girare nella toppa. Il cancello, scricchiolando, si aprì. 

Percorse lentamente il vialetto leggermente  in salita. Il verde era incolto. Ai bordi le siepi verdi, un tempo fitte e perfettamente simmetriche, erano adesso arbusti alti e irregolari che si spingevano  fin sulla via restringendo la carreggiata. Due alberi sul finire della strada, con le loro fronde, facevano arco  e gli regalarono per qualche secondo un po’ di frescura.

     Era arrivato. La villa gli si presentava davanti su un altopiano a terrazzo, sorretto da un muro in pietra.  I suoi occhi si posarono sulla piscina,  per alcuni secondi non vide, quel mare di terra, foglie secche e spazzatura che copriva quasi per intero il fondo, gli parve di  sentire  le grida e i risolini dei  bambini, in fila sul bordo, che si tuffavano buffamente e le lodi della moglie che in acqua li sosteneva via via che emergevano.

    Si scosse con un nodo in gola e volse lo sguardo alla villa da troppi anni abbandonata. Le persiane che prima si aprivano sulla scogliera e sui fichi d’india, per dare aria e sole agli interni di stanze vissute, adesso avrebbero stentato a spostarsi dalla soglia, ispessita dalla polvere e dalla sabbia del deserto africano che, nelle giornate di scirocco, arrivava fin lì.

    Si fermò a considerare il deterioramento del giardino sopraffatto da erbacce selvatiche, la facciata della villa costellata qua e là da tratti  di intonaco gonfio  o scrostato ed ebbe la sensazione di una fine senza ritorno.  Volse lo sguardo alla via lungo la quale le antiche ville, splendide nei loro decori liberty, identiche a come le aveva lasciate, spalancavano le imposte a un giardino dal verde rigoglioso, a un presente dal quale lui era escluso. Quell’angolo di Milazzo era rimasto immutato nel tempo, perché aveva continuato la sua corsa indipendentemente da lui  ed era il presente. Lui era il passato. 

Cap. 6, pag. 67.

   Tano aveva cinque anni e suo fratello Pietro tre. Il padre aveva deciso che fosse giunta l’ora di far dormire il più grande nella  stanzetta. Fu preparato all’evento soprattutto dal padre.

   Gli fu detto che adesso era un ometto, che avrebbe avuto una stanza tutta per lui.

   Per l’occasione avrebbe potuto scegliere un nuovo giocattolo nel grande negozio che avevano inaugurato proprio in quei giorni.

    Tano sorrise al ricordo di lui piccolo che si fermava incantato a guardare  i giocattoli  sugli scaffali senza sapersi decidere. Poi la sua attenzione fu attirata da una bambola alta quasi come il  fratellino, con un vaporoso vestito  rosa ed una coroncina di fiori in testa.

    <<Voglio questa>>, disse a suo padre che l’accompagnava.

  Suo padre scoppiò in una risata. Poi scacciò l’occhio al proprietario del negozio << Ha buoni gusti  mio figlio, ha preso tutto da papà, ma dovrà aspettare ancora un po’ per le signorine, quelle in carne e ossa ovviamente>>.

Cap. 6, pag. 71.

A volte le bambine bisticciavano contendendosi Tano per marito, perché l’altra avrebbe avuto il ruolo di zia che ritenevano meno importante di quello di mamma.

Cap. 6, pag. 74.

Una volta suo padre arrivò nel mezzo di un’accesa discussione tra Martina ed Elisa.

    <<Non è giusto. Oggi tocca a me, fare la moglie di Tano, tu l’hai fatta ieri>>.

    <<Ah sì, ti sei dimenticata che per due giorni di seguito la moglie sei stata tu! Oggi la faccio io e basta, non insistere perché non mi convinci>>.

    <<Ed io mi bisticcio e non gioco più con te>>.

    <<Bambine, non fate così>>, intervenne il padre.

     <<Tano non scappa. Oggi o domani che cosa importa? Fra di voi non dovete litigare>>.

    <<Martina è presuntuosa>>, piagnucolò Elisa, <<la vuole sempre vinta>>.

    Il padre strizzò l’occhio al figlio, poi esordì <<Se non riuscite a mettervi d’accordo, potete giocare a pari e dispari, chi vincerà avrà, per oggi, il ruolo di moglie>>.

    Quella sera erano invitati a cena degli amici dei suoi genitori e il padre, tutto orgoglioso, raccontava loro che le amichette di suo figlio litigavano per averlo come marito.

    <<Il giovanotto ha solo dieci anni, ma promette bene>>, concludeva con una risata.

Cap.5, pag. 59

Durante il ricevimento aveva bevuto un bicchiere dietro l’altro con l’intento di ubriacarsi. Non c’era riuscito.  Era solo un po’ stordito, ma non troppo. Parlava a voce alta, rideva alle battute degli amici che lo schernivano, rispondeva a tono con battute  piccanti.

    La sposina lo guardava turbata e fingeva un’allegria che era lontana dall’avere.

     Doveva apparirgli un altro uomo, uno sconosciuto del tutto diverso dal gentile e romantico ragazzo di cui si era innamorata e al quale solo un paio d’ore prima  aveva detto sì.

    Quando gli ultimi parenti ed amici lasciarono la sala, riacquistò un po’ di lucidità. Quella notte non ce l’avrebbe mai fatta. Un altro giorno sì, ma non quella notte.

    Era ubriaco. Nell’ascensore che li avrebbe portati al quarto piano dove li aspettava la loro suite, abbracciò la moglie, perse l’equilibrio e finì per sbattere contro la parete.

    In camera si tolse la giacca e si gettò sul letto. Biascicando con la voce, la invitò ad andare per prima in bagno.

    Quando Elena uscì dal bagno lo vide nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato. Era ancora vestito e dormiva pesantemente.

    Trattenne a stento le lacrime.  Era questa la sua prima  notte, la notte che aveva tanto sognato! 

…  Vedeva la sua giovane sposa, immobile come una statua, accasciata sulla poltrona, avvolta in un bagliore evanescente di madreperla, versare lacrime silenziose. 

      Era sdoppiato. Il suo corpo era disteso lì, la sua ombra vagava per la stanza come anima dannata.

<< Dio mio, che ho fatto!>> pensò sgomento.

Pino.  Cap. 2  Pag. 20-22

    Si alzò e si accorse che il mal di testa era insopportabile.

    <<Un caffè, ho bisogno di un caffè e di un’aspirina>>.

    Passò in cucina, mise sul gas la moka e si accese una  sigaretta. Alla prima boccata fu assalito da un conato di nausea. Schiacciò  la sigaretta nel posacenere  ed andò in bagno. Si lavò il viso, ma il senso di disgusto persisteva. Infilò la testa sotto la fontana. La caffettiera borbottava ed iniziava ad arrivare l’aroma del caffè. Tamponò con la spugna viso e capelli. Fra alcuni minuti, dopo aver ingoiato la pillola con mezzo bicchier d’acqua e sorseggiato lentamente il liquido dell’intera caffettiera, si sarebbe sentito meglio.

    Era il rituale del mattino o meglio del mezzogiorno del sabato e della domenica, giorni in cui non lavorava.

    Negli altri  non beveva.

     <<Domani devo essere lucido e attento. Il mio lavoro è di grossa responsabilità>>, diceva con ironia parlando del suo impegno precario di guardia giurata in una banca.

     Stava sostituendo da un mese  un amico che  aveva avuto un brutto incidente automobilistico e quell’offerta era caduta proprio a proposito, non era più in grado di pagare l’affitto della modestissima abitazione in periferia, costituita da due stanzette al quarto piano di un vecchio stabile senza ascensore.

    La sua rendita, da tempo, si era esaurita. Pino aveva dovuto lasciare il bell’appartamentino in centro dove aveva abitato quando si era trasferito a Milano e viveva di lavoretti saltuari che gli permettevano il minimo indispensabile, forse nemmeno quello. Tante volte pensava che  il suo futuro sarebbe stato in strada a fare il barbone.

    Al suo arrivo era stato attratto dallo splendore della nuova città che avrebbe decretato il suo successo. Voleva dimenticare Milazzo e i Milazzesi da cui era stato costretto ad allontanarsi.

     Dopo qualche anno, però, aveva venduto il pianoforte e deposto definitivamente la chitarra. La città aveva perso il suo fascino, ora notava solo la bruttezza di squallidi edifici di periferia ed il pallore della gente che l’incrociava senza vederlo. Dietro quel reticolato di finestre sconosciute, vivevano centinaia di ombre che celavano una vita di cui i passanti non avrebbero mai saputo nulla.

    Quella mattina il caffè non funzionò, il cerchio alla testa persisteva e nemmeno la doccia era riuscita a tirarlo su.

    Si guardò attorno. Quella era la casa di un fallito, amorfa, anonima. Niente in quelle quattro mura parlava di lui. Solo una chitarra impolverata,  abbandonata in un angolo.

…     Negli ultimi tempi si era trovato a tirare fuori la pistola dalla fondina, la puntava alla tempia e “bang bang”, simulava di togliersi di mezzo per sempre, poi la riponeva al suo posto, vicino la divisa di guardia giurata e continuava la vita di sempre.

 Viola. Cap. 3  pag. 27-32

Viola    Mi alzo, con un senso di stanchezza incredibile,  la doccia e il caffè fanno poca cosa.

Psicologo    Mi parli della sua giornata lavorativa.

 Viola     A lavoro vado a piedi proprio per riprendere le forze. L’aria e il camminare mi fanno bene. Per ora sono impiegata in una bottega antiquaria, non so quanto ci resterò. Ho cambiato diversi lavori.

    Sono laureata in legge, ma non ho fatto niente per mettere a profitto la mia laurea. Quando sono arrivata a Torino ho risposto al primo annuncio che mi è venuto sotto mano.

    “Cercasi dama di compagnia per anziana signora in buona salute”.

    Mi offrivano pure vitto e alloggio. Così feci il mio ingresso in casa della signora Giulia. Era nei miei riguardi sempre affettuosa e premurosa. Mi chiamava la mia bambina. Aveva intuito che avevo altre aspirazioni di lavoro e non capiva perché, con la mia laurea in Giurisprudenza, stessi a perder tempo con lei. Io stavo bene con la signora Giulia. È  stato il rapporto di lavoro più lungo tenuto  fino ad oggi e si è concluso  con la sua morte.

Psicologo   E dopo?

Viola   Dopo sono stata segretaria di un avvocato, cameriera in una trattoria, commessa in una profumeria, commessa in una gioielleria, adesso lavoro in una bottega antiquaria.  Non riesco a mantenere un lavoro a lungo.

Psicologo    Perché?

Viola   C’è sempre un motivo che mi spinge a cambiare,  non sopporto il datore di lavoro, litigo con qualche collega, non sono considerata nel mio impegno, lo stipendio è troppo basso, la mansione che svolgo non mi piace.

Psicologo   Mi parli del suo lavoro come segretaria nello studio legale e del perché lo ha lasciato.

Viola  L’avvocato era un uomo gelido, incuteva soggezione. Voleva massima efficienza.

  Non ero solo la sua segretaria, pretendeva che facessi la factotum. Un giorno mi sono ribellata alla richiesta di comprare per lui i regali di Natale per non so quanti amici e parenti.

    Mi aveva dato una nota di nomi  con il budget di spesa per ogni regalo. Non gli interessava che cosa avrei comprato, l’importante era che fosse rispettata la somma prevista.  Gli dissi che fare compere non mi competeva.

    Lei è una donna intelligente e preparata, potrebbe anche fare il praticantato nel mio studio, ma se la professione di avvocato  non è di suo gradimento, nessuno la obbliga a restare.

    Non risposi. Voltai le spalle ed uscii dalla stanza.

    Anche se in modo burbero, mi aveva offerto di fare  il salto di qualità, il  passo determinante  che mi avrebbe avviata alla professione di avvocato. Sarebbe bastato che avessi fatto le mie scuse e mi fossi dimostrata  entusiasta di quella prospettiva, per dare una svolta alla mia vita, invece troncai di netto ogni rapporto.

Psicologo    Si rammaricò di aver rifiutato una così importante opportunità.

Viola    Sì, ma mi dissi che  avrei potuto riprendere a studiare per partecipare ai diversi concorsi ai quali la mia laurea dà accesso o  avrei potuto avviare un’attività diversa, ho pensato anche ad un’agenzia investigativa. Sarebbe stato possibile perché  in banca  ho una cifra considerevole che avrei potuto investire.

    Non l’ho mai toccata. Giace inutilizzata.

Psicologo    Perché?

Viola    Non so,  la conservo per i momenti difficili.

Psicologo    Continui a parlarmi della sua giornata.

Viola   Il momento del ritorno a casa è il più brutto. Non sono in grado di trascorrere una serata  o un giorno festivo in casa a fare quelle cose che si fanno nell’intimità e che piacciono.

Psicologo    Si spieghi meglio.

Viola    Chi trova gradevole cucinare, chi vedere la televisione sgranocchiando patatine, chi ama  leggere, ascoltare musica, lavorare a maglia, ricevere amici. Io non posso fare niente di tutto questo, devo uscire. Esco tutte le sere, anche se sono  stanchissima. Vado al bar e cerco compagnia.  Di solito sono gli uomini che mi notano, altrimenti mi faccio notare.

Psicologo    Come?

Viola   Basta che accavalli le gambe e guardi il prescelto per qualche secondo. Subito me lo ritrovo accanto, pronto ad offrirmi qualcosa da bere. Io rifiuto sistematicamente, ma lo invito ad intrattenersi con me a patto che ognuno si paghi i suoi drink. Di solito beviamo parecchio,  l’alcol mi rende disinvolta, mi lascio attrarre dalle lusinghe e lusingo gli uomini,  poi  si offrono di accompagnarmi a casa, ma  dico quasi sempre di no.

 Psicologo    Il sesso le piace?

Viola    Silenzio.

Psicologo    Nell’amplesso raggiunge l’orgasmo?

Viola  No, ma fingo di raggiungerlo. Quando resto sola cado in un  sonno profondo, dormo alcune ore ed è già mattino.

Psicologo    Così tutte le notti?

Viola   Gliel’ho detto, è difficilissimo che  torni a casa con un uomo, sicuramente torno molto tardi ed abbastanza stordita dall’alcol, anche se non mi sono mai  ubriacata del tutto.

 Psicologo   Ritorniamo alla signora Giulia, mi parli di lei.

Viola     Silenzio.

Psicologo    Mi parli di sua madre.

Viola    Silenzio.

  Viola era percorsa da una strana sensazione. Era stata una seduta non diversa da tante altre, eppure  improvvisamente si era zittita, non aveva più voglia di parlare.

    <<Sono stanca dell’approccio verbale per aprire un varco  alla coscienza>>, aveva detto al suo analista, usando la sua terminologia.

    <<Non vedo alcun  risultato e lei è il terzo  che cambio>>.

    <<Lei non li vuole i risultati>>, aveva risposto lo psicologo, senza dare spiegazione e lasciandola spiazzata. La seduta si era conclusa così.

Giacinto, cap. 4 pag. 39- 46.

Uscì fuori dal suo laboratorio, stava avvicinandosi l’ora di pranzo, i suoi giovani apprendisti  si erano intrattenuti un po’ più del solito per ultimare delle foglie d’oro che sarebbero servite per la realizzazione di spille, ma adesso erano andati via per la pausa pranzo.

     Giacinto aveva detto loro di prendersela con comodo per il rientro pomeridiano.

     Si stirò, allungò le gambe e fece alcuni movimenti con le braccia per allentare il torpore di tante ore di lavoro, seduto a disegnare due nuove  creazioni.

    Il cielo era scuro; sulle colline del Monferrato sovrastava una coltre di nubi grigie; iniziò a piovere, prima qualche rara  goccia, poi una pioggia fitta e leggera. Dalla campagna  si sprigionava  un buon odore di terra bagnata. Giacinto non si sottrasse alla frescura della pioggia che scrosciava, intensificando i colori: più verde il prato, più rossa la terra, più cangianti le foglie del platano. Stava lì, immobile, sul piano, pervaso dall’inebriante sensazione dell’accendersi simultaneo di tutti i suoi sensi.

    Come sempre, quella sensazione lo riportò indietro nel tempo, quando bambino con la sorellina  si precipitava fuori in giardino sotto le prime piogge di fine agosto. La madre li chiamava, gridava loro che si sarebbero presi un malanno, ma non sentivano ragione, continuavano a  ballare e a saltare sotto la pioggia.

    <<Mammina, lasciaci gustare l’odore>>, pregavano, ed immancabilmente la madre si metteva a ridere e li faceva stare ancora un po’, tanto non è che facesse freddo, difficilmente si sarebbero potuti ammalare con quella temperatura estiva.

    Giacinto, da piccolo, trascorreva molto tempo in gioielleria, lo accompagnava il nonno. Quando il padre o il commesso srotolavano le fasce di velluto rosso o blu, guardava con sempre rinnovata meraviglia il luccicare degli ori e gemme preziose nelle forme più svariate di anelli, spille, collane, bracciali e il suo più grande desiderio sarebbe stato quello di poterli toccare, ma non era permesso.

    Lo affascinavano anche le vetrine di esposizione, vi incollava sopra il naso ed immaginava che quei gioielli venissero da un paese incantato.

Un giorno era rimasto colpito dal verde di uno splendido smeraldo ed il nonno gli aveva raccontato la favola di una principessa che era uscita da un incantesimo che la rendeva sempre triste perché un principe le aveva donato un anello d’oro con una grande pietra dello stesso identico colore degli occhi della ragazza. Quella pietra era uno smeraldo raro e prezioso ed il principe aveva dovuto affrontare mille peripezie per averlo. Quando Giacinto fu più grande, il nonno gli raccontava altre storie, ma quelle non erano inventate,  parlavano di gemme preziose, passate alla storia, per la loro unicità, raccolte in paesi lontani, conservate in musei o trasformate in gioielli preziosissimi.

    Ecco perché Giacinto non ebbe dubbi sul lavoro che voleva fare da grande, non gli sarebbe bastato vendere i gioielli, lui  voleva realizzarli.

    Dopo l’episodio, a soli diciannove anni, si era trasferito a Valenza.

     Iniziò a lavorare sodo e da solo. Quando creava non guardava orario, stava chiuso ore e ore nel suo laboratorio e dimenticava persino di mangiare.

    Dietro ad ogni oggetto che realizzava c’erano i sogni della sua infanzia, forme statiche e in movimento, colori, luci, la natura  al Capo di Milazzo, la trasparenza del mare,  i raggi del sole a mezzogiorno, il bagliore della luna.

 Trascorreva nella bottega quasi tutta la giornata. Se il tempo lo permetteva, prima di rincasare, faceva una passeggiata solitaria  lungo una  stradella  in terra battuta che delineava i campi  vicini, poi la cena, un po’ di tv e a letto in compagnia di un buon libro. La domenica la dedicava al giardinaggio.

    Aveva fatto di tutto per lasciarsi alle spalle il passato,  non ne aveva più parlato con nessuno, era una storia da tenere nascosta, da dimenticare.  Si era isolato per non venire in contatto con il mondo degli affetti, perché non ne rimanesse ferito, era un suo modo di  difendersi dal pericolo di amare.

                     Anatomia di un romanzo (2023) 

Complesse e tortuose sono le vie che conducono ai segnali che l’inconscio lancia attraverso i sogni.

Simone, scrittore famoso di romanzi gialli, da quando ha assistito ad un incidente stradale nel quale è morto un bambino, è ossessionato da sogni ricorrenti.

La sua vita ne risulta sconvolta, perde l’ispirazione, non riesce più a scrivere  un romanzo e nel giro di pochi anni si trova in povertà.

Per farsi dare un cospicuo anticipo, racconta al suo editore di aver ultimato il più appassionante thriller psicologico da lui composto, ma che gli è stato rubato.

Si ritrova così costretto a scrivere il romanzo che non esiste.

Anatomia di un romanzo si snoda tra due storie parallele, quella dello scrittore Simone e quella del chirurgo Tommaso, protagonista del thriller che Simone si avvia a comporre.

Questo romanzo rappresenta l’eterna battaglia psicologica tra conscio ed inconscio, tra essere e voler essere, tra male e   bene, tra  lecito e illecito, tra   sogno e   realtà.

 Professioni, lavoro, amori e in generale esperienze di vita, vengono magistralmente descritte e dipinte con naturalezza, andando tuttavia a scavare all’interno della turbata condizione di vita del singolo soggetto.

In un piano narrativo nuovo ed articolato, l’autrice ha costruito un giallo nel giallo, un romanzo nel romanzo, affidando alla scrittura un alto valore terapeutico e liberatorio.

Per entrare nello spirito di quest’ultimo romanzo di Lilia D’Amico, è opportuno fermare lo sguardo sull’immagine di copertina.

Resteremo colpiti da due piani figurativi, contenenti uno la natura che appare in tutta la sua realtà, l’altro la natura all’interno di un quadro, che ci condurranno alla struttura del romanzo che si articola  su due piani.

 Il pittore Calamuneri dimostra una padronanza magistrale nella strutturazione del dipinto, con la distribuzione variegata del colore, realizzata con raffinatezza distributiva e con una rara capacità di sintesi figurativa del romanzo nel romanzo,  rappresentata da  una magica visione di una selva oscura posteriore, su cui brillano i diversi e ben amalgamati colori del primo piano, dove la foresta si è totalmente oscurata, lasciando solo intravedere robusti e annebbiati tronchi che sembrano rappresentativi dell’oscurità del male e in primo piano lo splendore del bene. Ed è su tali contrapposti o progressivi ideali che oscilla la tematica del romanzo: il bene e il male contrapposti nella realtà del romanzo nel romanzo. Il primo protagonista è Simone, che ha una vita instabile per la persecuzione di un sogno ricorrente che lo destabilizza. I sogni possiedono un valore risolutivo delle problematiche dei personaggi e ne anticipano la profetizzazione finale.    

Il secondo è il chirurgo Tommaso, figlio di un ambiguo e feroce medico chirurgo, protagonista crudele e decisivo del male assoluto, dell’inganno  e dei delitti orrendi di bambini piangenti ed affamati che le madri hanno affidato alle onde del mare tempestoso, nella speranza di poterli salvare. Tommaso  ignorava  ciò che avveniva in quella fatiscente abitazione apparentemente abbandonata, e invece, bene attrezzata di nuove apparecchiature di morte, dove il padre esercitava con apparente fermezza, l’espianto di organi a bambini naufraghi narcotizzati, per venderli a prezzi prestabiliti, ai mercanti di morte, che incassavano dal destinatario finale somme incredibili.

La D’Amico racconta  tali efferatezze con palpitante freddezza, sempre con lo stile adeguato alla situazione, ma le sue parole, apparentemente attraversate da un soffio cinico, sono pietre ben affilate che denunciano e pronunciano sentenze di inappellabile condanna  contro i nuovi  pirati della morte. La scrittrice continua a rappresentare altre modalità  dell’eterna lotta psicologica tra il male e il bene, tra il conscio e l’inconscio, tra il desiderio di far affiorare alla coscienza  avvenimenti  passato che si intuiscono terribili e la paura non saperli affrontare restandone quindi eternamente succube. Questo è quello che accade a Simone che, però, via via che la coscienza gli lancia segnali di risveglio, attraverso i sogni, senza quasi consapevolezza, toglie il velo alla parte oscura che si annida nel profondo del suo essere e vuole ricordare, vuole capire, perché solo così potrà riprendere in mano la sua vita. 

Questo processo avverrà attraverso la composizione di un romanzo che più degli altri si impone senza la sua volontà, come se ci fosse un’altra mano che scrive per lui. Tommaso, il protagonista del romanzo che sta scrivendo, diventa così la proiezione di se stesso quando, inconsapevolmente, costruisce per lui una storia simile alla sua. Questa narrazione lo aiuterà a risalire alla sua terribile infanzia in Africa, dove, strappato alla famiglia, viene venduto ai trafficanti di morte e raggiunge su un barcone la Sicilia.

Questo romanzo è ricco di valori comuni assoluti,  sono quelli che la scrittrice D’Amico nel simposio con gli altri veri scrittori, insegna nel suo impegno narrativo. Il lettore non può che procedere  con fiducia  lungo i percorsi seguiti dai personaggi, consapevole che la scrittrice non li deluderà, come ha anche fatto nei precedenti romanzi. Così i tasselli del nuovo romanzo si ricompongono man mano che le pagine si susseguono, lasciando il lettore ancorato alla speranza che la vita, per quanto a volte estremamente traumatica,  possa offrire un’occasione di rinascita.

Recensione di Marco Tiffi sul romanzo Anatomia di un romanzo

Sono sufficienti le prime righe del romanzo perché risalga alla memoria il peculiare stile linguistico dell’autrice in chi ha avuto modo e il piacere di leggere i tre precedenti romanzi.

Questo scritto documenta ancora una volta quella mirabile e raffinata  forma asciutta ed introspettiva della D’Amico, attraverso un’opportuna antologia di personaggi, di vicende e di trascorsi che van meditati uno ad uno.

Se si esaminano gli elementi  del quadro di  copertina,  apparentemente sparpagliati e disordinati, a ben guardare  ci accorgiamo che rappresentano un ordine comprensibile  via via che si incede nella lettura e si palesano  come elementi costitutivi  che illuminano la trama di questo romanzo.

L’autore della copertina, Giovanni Calamuneri, in una natura buia ed inquietante, inserisce un quadro di luce rasserenante.  Con la rappresentazione del quadro nel quadro  si è voluto fare riferimento alla costruzione dell’originale piano narrativo della scrittrice che ha realizzato un romanzo nel romanzo, affidando alla scrittura un alto valore terapeutico e liberatorio.

Il primo protagonista è lo scrittore Simone e già dal titolo dell’opera, Anatomia di un romanzo, si arguisce la vicenda che lo avvolge.  Il secondo  è il chirurgo Tommaso, personaggio principale del thriller che Simone  va componendo senza un preciso filo conduttore, e che sarà continuo spunto di riflessione e analisi  sulla vita dello scrittore, resa instabile, dal  buco nero della sua infanzia e da sogni angosciosi che si ripetono sempre uguali.

 Svolgono, dunque, nel romanzo,  funzione primaria i sogni che sembrano quasi anticipare e fungere da spoiler alla quadratura del cerchio del racconto stesso.

Come nelle opere precedenti l’autrice non manca di denunziare con saggia maestria fatti gravi di inaudita efferatezza, ma la stridente dicotomia rappresentata dall’essere e dal voler essere del personaggio principale di questa vicenda, in uno con le varie sfaccettature psicologiche dei diversi personaggi che lo compongono, portano il lettore ad estraniarsi ed a riflettere con convinzione circa il vero senso della propria esistenza.

Sembrano tutti gli interpreti attratti da una inconsolabile, quanto indistinta insofferenza nel voler sostenere il proprio essere in modo assoluto e netto. I personaggi danzano lungo quel filo della propria coscienza che permette loro a volte di rimanere sospesi, altre volte di cadere nell’abisso del proprio male.

Questo romanzo rappresenta l’eterna battaglia psicologica tra queste due entità: tra l’essere e il voler essere, tra  il male e il  bene, tra il  lecito e l’illecito, tra  il sogno e la realtà.

La propria professione, il proprio lavoro, gli amori e in generale le esperienze di vita, vengono magistralmente descritte e dipinte con naturalezza, andando tuttavia a scavare all’interno della propria turbata condizione di vita del singolo soggetto.

Come in ogni suo scritto, la chiave di lettura viene disseminata in ogni capitolo del romanzo. Sembra quasi che l’autrice  si diverta a portar per mano il lettore in questa inquieta caccia al tesoro che si rasserena solo nell’epilogo del ritrovamento della verità, raccolta e consegnata al lettore in maniera esplicita.

Quest’arte di saper gradatamente condurre il lettore alla comprensione del testo e al chiaro messaggio  è cosa davvero pregevole e assai rara.

I tasselli del romanzo si compongono man mano che si scorrono le pagine dello scritto ed infine, con disincantata meraviglia, il lettore potrà apprezzare appieno il significato e quella malcelata denunzia dell’orribile tragedia umana che sottende al romanzo stesso.

Pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, nasce e monta nel lettore quel desiderio di voler giungere alla fine per assaporare  il segreto del romanzo, la ragione e i moventi degli omicidi, la cupa paura di chi pare li abbia commessi, l’affannosa lotta della ricerca della verità dell’investigatore tenacemente ancorato al suo pensiero razionale,  in un contorno pregno di un’infinità di tensioni, di scontri tra le diverse anime che lo compongono.

Non c’è tregua in questo incalzante romanzo se non quando si  ascolteranno le note serene della citazione shakespeariana che si rivela come un’apertura all’amore e alla vita. 

 Carmelo Aliberti incontra  Lilia D’Amico

Domanda. Lei scrive romanzi gialli dai quali traspare notevole interesse per la psicologia.  Che cosa vuole trasmettere al lettore con le sue opere?

Risposta.    Ho avuto sempre una passione particolare  per la psicologia.

Purtroppo nel ’71 a Messina non esisteva  tale  facoltà,   ho scelto  Filosofia perché più vicina ai miei interessi ed ho elaborato un piano di studi psico-pedagogico. Gli studi, ma anche tante letture, mi hanno arricchita e hanno rafforzato la mia inclinazione.  Nei vari rapporti umani, specie se si manifestano problematici,  non mi fermo  all’osservazione di comportamenti,  sono portata a ricercare  le motivazioni psicologiche che sottintendono a tali  comportamenti e questa analisi  la pratico anche su di me.

La ricerca non facile, né scontata  perché ognuno di noi, chi più, chi meno,  ha  un  lato oscuro di sé che  non affiora alla coscienza.

Non sono una psicologa, tantomeno mi permetterei di condizionare la vita altrui con interventi non richiesti, ma ritengo che scrutarsi dentro, riuscire a parlare con qualcuno dei propri problemi, anche  leggere,  scrivere, possa aiutare  a conoscersi meglio.

Mi è sempre piaciuto leggere e ogni opera bella, a qualunque genere appartenga, ha lasciato in me un segno che sicuramente traspare nelle mie opere. Non è il giallo il mio genere preferito, ma il giallo psicologico e il delitto nei miei romanzi non è mai fine a se stesso, serve per raccontare altro.

Voglio citare una frase di Dacia Maraini che faccio mia.

Lo scrittore per me è un palombaro che si immerge nelle acque infide dell’inconscio collettivo e porta alla luce oggetti nascosti e dimenticati. Spesso non sa nemmeno lui che cosa porterà alla luce. È piuttosto buio là sotto.

Il male su questa terra c’è, è presente nell’individuo, nella società, nella storia, noi ci conviviamo, ma dobbiamo trovare la forza di partire da noi per  combatterlo, scoprendo il nostro lato oscuro in fondo al quale è rinchiusa la nostra sofferenza.

Ognuno di noi vorrebbe  conquistare  un equilibrio  psico-affettivo che duri nel tempo  che  in fondo è il percorso  che porta alla feli­cità. Ma la ricerca non è facile,  occorre tracciarlo  nelle circostanze e nelle situazioni in cui la vita ci colloca, più o meno difficoltose, a volte estreme. Il filo conduttore dei miei romanzi è proprio questo, la ricerca dell’equilibrio che si traduce nella ricerca della felicità.

Domanda. Personaggi e situazioni  dei suoi romanzi  presentano una complessità che va oltre il genere romanzo giallo.  Chi sono i suoi personaggi?

Risposta.  Le trame dei miei romanzi “gialli” sono  diverse, diversi  i delitti,  i moventi, la collocazione nel tempo, ma tutte le storie  ruotano attorno ad un evento oscuro,  rimosso, che improvvisamente emerge dalla caligine del passato  e influenza le azioni dei personaggi.

Laura, la protagonista del romanzo Il passato non ha un volto, è una donna che appare da subito problematica.

Soffre d’insonnia, è ossessionata da un sogno ricorrente che la lascia al risveglio stremata, si rifiuta di fare  bilanci sulla sua vita, per questo ha paura di guardarsi allo specchio, di scrutarsi nel profondo, pensa di non farcela, ogni qualvolta ci ha provato, si è sentita persa, annientata, assalita da quella sensazione di smembramento che assume l’aspetto della morte.

La morte in psicanalisi è distacco, mancanza,  separazione  e a Laura  fa paura. Ha  paura di soffrire, ma soprattutto di scoprire una  verità che non sarà in grado di affrontare.  La morte  la spaventa,  ma anche  l’attrae, non capisce perché, forse  intuisce che bisogna prima morire per imparare a vivere.

In effetti sarà così, solo in seguito alla separazione dal marito, vissuta come una morte,  si affaccia in lei la voglia di veder chiaro nel suo passato, presupposto indispensabile per un percorso di rinascita.

Vanni ed Helga, i protagonisti  del romanzo Il riflusso dell’onda vivono una tragedia che risale al Campo di concentramento di Auschwitz.

 Helga è ignara di essere figlia di una nazista e vive con i genitori  a Monaco di Baviera,  Vanni è perseguitato da un continuo senso di colpa per essere un sopravvissuto insieme alla madre, mentre il padre e il fratello maggiore sono morti. Del  lagher non ricorda niente, ma fa suoi gli incubi della madre.

Una terribile rivelazione affianca il suo destino a quello di Helga  e per uscire fuori da un passato che devasta la sua  psiche,  medita la vendetta.

Il riflusso dell’onda fa riflettere sulle ripercussioni psicologiche  che la Shoah   ha avuto non solo sui  sopravvissuti ai campi di concentramento,  ma anche sui  figli dei sopravvissuti e sui figli dei nazisti esecutori del male estremo.

Vanni ed Helga, figli di vittime e carnefici, sono uniti da una  sorte comune di sofferenza per effetti di un trauma,  dilagato oltre l’epoca dei genitori.

 Solo una lunga e sofferta elaborazione del perdono, senza però dimenticare,   permetterà ai due giovani, del tutto innocenti, di perdonarsi, di liberarsi del senso di colpa, della vergogna  e del rimorso per  iniziare una nuova vita. 

 Nel romanzo Il grido dei gabbiani  per Pino, Viola e  Giacinto, i tre figli di Tano, uno stimato gioielliere, dopo  “l’episodio”  che ha sconvolto la loro vita e ha portato il padre in carcere, inizia  un processo di disgregazione degli affetti che andava maturando da tempo.

Pino si sente abbandonato. Senza la madre ha perso ogni fiducia nelle sue capacità e si  lascia andare alla deriva, annullandosi nell’apatia.

  Viola si ritiene perseguitata dal destino. Tradita dai genitori, cede ad ambigui comportamenti, è in continua  ricerca di un ambiente, in cui sentirsi a proprio agio, non lo trova, finisce in analisi, ma senza alcun risultato.

Giacinto crede di aver superato la sofferenza,  ma è solo addormentata in un angolo buio e freddo della coscienza, è diventata un trauma che lo spinge a soffocare ogni sentimento per paura di soffrire.

Alla fine tutti e tre  saranno costretti a confrontarsi con il proprio bisogno d’amore.

Per loro la salvezza sarà nel ritorno alla loro terra, alla loro casa, dove riusciranno ad accettare veramente la realtà della loro vita, della famiglia di origine, costruita sul dolore di un padre  omosessuale, ma estremamente amorevole, di una madre che ha sbagliato, ma anche tanto sofferto. 

Simone, il protagonista del mio ultimo romanzo, Anatomia di un romanzo, è uno scrittore di successo che apparentemente ha una vita soddisfacente. Ha  genitori amorevoli che l’hanno adottato quando aveva cinque anni ed è apprezzato da un seguito di  lettori che non di rado si complimentano per i suoi libri.

All’età di quarant’anni, dopo aver assistito ad un incidente in cui un  bambino perde la vita, si ritrova a fare i conti con turpe passato che ha rimosso del tutto alla coscienza per impossibilità a sostenerlo.

In questo romanzo ho voluto affidare alla scrittura il processo di elaborazione dei ricordi traumatici.

L’esplorazione di se stesso, inizia per Simone nel momento in cui  si sofferma ad esaminare il personaggio di Tommaso che sembra essere fiorito  dalla sua penna, senza consapevolezza, come se qualcun altro l’avesse suggerito e lui si fosse limitato a battere i tasti sul computer.

Via via che il romanzo procede, Simone confronta i suoi comportamenti, i suoi incubi, i suoi sogni ricorrenti con quelli di Tommaso. Si chiede la ragione delle sue insicurezze, delle sue paure,  dei suoi fallimenti nei rapporti con le donne, in particolare  con la ragazza di cui  in gioventù si era innamorato, del perché questo romanzo che nasce e prosegue senza un piano stabilito,  lo stia tanto spaventando. L’inconscio che, a sua insaputa, aveva condizionato la sua vita precedente, sta  lanciando  i suoi messaggi di risveglio e lui li teme, senza capirne la ragione.

  Domanda. Parliamo del rapporto tra scrittura e  società.  In che modo incide la società contemporanea sulla crisi interiore dei suoi  personaggi? Quale dovrebbe essere il ruolo dello scrittore nella catastrofica società del Terzo Millennio?

 Risposta.   Inizio col dire che questo secolo nasce  nel culto dell’apparire e del dio denaro che hanno soffocato, in nome del successo, ogni slancio di spontaneità, vivacità intellettiva, distrutto valori ed ideali,  mortificato chi vuole cercarli o mantenerli.

Fenomeno preoccupante è anche la ricerca di visibilità  ad ogni costo, il più delle volte, senza consapevolezza, perseguita  soprattutto dai mediocri o dagli ignoranti.  Niente da eccepire sull’ignoranza, tutti noi ignoriamo o non conosciamo abbastanza tantissime cose. L’importante è averne la consapevolezza.

Affamati di notorietà, non è difficile che  moltissimi si sentono autorizzati a sbandierare attraverso i social e svariati  mezzi di comunicazione, tra cui i talk show  televisivi,  la loro limitatezza   scambiandola per  cultura.   Ed ecco il proliferare  di poeti, narratori, critici, esperti onniscienti che dall’alto della loro ignoranza, si sentono autorizzati a vaticinare  su tutto e su tutti.  Credono così che l’aver  “voce”,  meglio ancora se gridata, possa accrescere  l’autostima e l’affermazione nella società e tante volte si illudono di averla conquistata.

Ma l’inseguire falsi ideali  difficilmente  procura felicità, nemmeno serenità, solo un’ansia distruttiva di voler sempre di più e ad ogni costo, grosso senso di frustrazione in chi non ci riesce. Non è difficile vedere famiglie che si disgregano per le accuse reciproche di inettitudine.

In troppi si sono lasciati incantare dai pifferai magici di turno, detentori di un potere malato che esercitano senza scrupoli,  lupi famelici camuffati,  nemmeno tanto,  da agnelli, da santi, da benefattori dell’umanità, da eroi  e li hanno seguiti, imitati.

Poi ci sono gli uomini che di fronte a tanto sfacelo sono smarriti, vivono nella paura di una catastrofe che investe ogni sfera, da quella dei valori, a quella distruttiva della guerra, a quella ambientale, fortemente legata alle malattie,   epidemie  senza cura,  che oggi, purtroppo, ritornano a minacciare la sopravvivenza dell’uomo.

La Paura che si era presentata nel ‘900 come carattere distintivo di un secolo tra due guerre,  sconfitta in parte dalla fiducia  nelle possibilità dell’uomo di  una ricostruzione, intesa in senso lato,  nel nuovo secolo la fa da padrona, accompagnata da una preoccupante quanto deleteria sfiducia che l’uomo possa invertire la rotta.

I miei personaggi vivono in maniera traumatica le paure, le ansie, le incertezze, lo smarrimento per la perdita degli ideali,  la presenza del male che aleggia intorno a loro,  sotto svariate forme, propri della crisi di epoca che è mutata, che ha perso i suoi ideali e non ha saputo crearne altri.

Quale dovrebbe essere il ruolo dello scrittore in questo sfacelo sociale?

Potrei rispondere che nei miei romanzi ho voluto  narrare  la verità  e lo sforzo  dell’individuo per cercarla, in una società  fortemente condizionata  dalla “cultura” dominante e  dal potere, qualunque esso sia, perché questo è il compito dello scrittore.

Ma  la verità in assoluto non esiste.  Nella  ricerca,  anche quando l’uomo  crede di averla trovata, rimane dubbioso, confuso perché non si presenta netta, ma variegata di sfaccettature.  E allora non gli resta altro che scoprire, nell’interiorità, una sua  verità,  nella ricerca e costruzione di propri valori magari dimenticati, soffocati, che possano sostenere la persona e procurare benessere, saranno gli affetti, la famiglia, la fede, la terra, l’arte, il bello in generale, il lavoro condotto con passione ecc.ecc.  

Ognuno potrà trovare i propri.

Lo scrittore può facilitare questo percorso, accendere la voglia di cambiamento, di ricerca dei valori, di onestà intellettuale attraverso la conoscenza, la consapevolezza, che prendono avvio dalla conoscenza di sé. Scacciare la paura vuol dire ritrovare equilibrio, ricominciare a vivere, è il percorso, se non proprio verso la felicità,  per lo meno verso momenti di felicità, è la fase della programmazione positiva del futuro e quindi il riaccendersi della speranza che si possa contribuire a miglioralo.

La serenità di tanti, diventa la serenità di un popolo, la speranza di tanti diventa la speranza di un popolo, la programmazione individuale di tanti diventa il futuro di un popolo. Lo scrittore può aiutare a suscitare nell’uomo il desiderio di farcela.

 Domanda. La lettura dei suoi romanzi emoziona parecchio. Come definirebbe il linguaggio dei suoi romanzi?

 Risposta. Qualunque sia il messaggio che si vuole trasmettere, le parole per me devono suscitare emozioni, il linguaggio è,  dunque,  quello del sentimento,  delicato anche per i temi più scabrosi.

 Questo non significa che presento una realtà edulcorata, ma che in ogni situazione  non  deve venir meno il rispetto per la sensibilità del lettore, soprattutto giovane, che non deve essere violentato da un verbalismo aggressivo e fuori misura.

L’espressione violenta,  volgare che indulge in particolari scabrosi, per me non dà maggiore realtà alla narrazione, impedisce solo di interiorizzare l’evento narrato, secondo il proprio sentire.

Io preferisco sottolineare le ripercussioni dell’evento sulla persona che lo subisce.

L’evento drammatico ognuno potrà costruirlo nella sua immaginazione, lo potrà vivere, sicuramente con sofferenza, ma secondo la propria sensibilità. Da lì potrà partire il proprio percorso di riflessione. Descrivere con estrema crudezza e con dovizia di particolari  qualsiasi violenza, non può che far male, perché alla fine saranno i particolari che finiranno per prevalere sull’atto che ovviamente è da condannare e l’effetto che ne deriva è deleterio, mi spiego meglio, la lettura potrebbe suscitare  profondo fastidio nei più sensibili, ma quel che è peggio, cariche aggressive nei più deboli, nei più condizionabili.

I miei romanzi sono volutamente brevi, affinché il non detto lasci spazio all’interpretazione del sentimento.

A volte quando scrivo, non mi accorgo di dilungarmi in particolari che sono  poco sono funzionali alla storia che voglio raccontare. Il momento della rilettura e correzione, per me, è quello più impegnativo. Sto molto attenta, infatti, a non allungare troppo con digressioni o descrizioni,  attentando alla scorrevolezza del romanzo. Mi spaventa immaginare un lettore che sfoglia distrattamente pagina dopo pagina, sperando di arrivare ad un dunque più interessante.

Questo non significa che i miei  romanzi hanno un ritmo incalzante, sono gialli psicologici e devono avere  un ritmo lento, quello della riflessione, dell’introspezione, dell’analisi.

Domanda. Ci sono degli elementi autobiografici nel libro?

Risposta.   Le storie  nella totalità sono  frutto di invenzione,  i miei romanzi non sono certo autobiografici.  Quando si scrive, però,  si mette sempre qualcosa di sé; pensieri, sentimenti, esperienze vissute vengono filtrati e si calano in una storia inventata, dandone autenticità. Anche alcuni particolari luoghi fanno parte del mio vissuto, ma un vissuto lontano, della mia infanzia.  Ormai mutati,  spesso irriconoscibili, sono  luoghi dell’anima, trasfigurati dal tempo e dai ricordi. 

 Domanda. Come mai ha deciso di ambientare  i suoi romanzi in Sicilia e proprio nel suo territorio?

Risposta. Non ho mai avuto dubbi che le storie dovessero svolgersi in Sicilia.

Ho riflettuto un po’ se la città principale dovesse essere Barcellona o Milazzo.

Ho scelto Milazzo che comunque è stata ed è parte integrante del mio vissuto, per evitare un coinvolgimento troppo intenso, per avere un minimo di distacco, ma non ci sono riuscita.  Il borgo  Pagliaro del romanzo, Il passato non ha un volto, in effetti è la mia contrada Pagano  ed a questa mi sono ispirata anche nel descrivere la casa di campagna  di Simone, protagonista di Anatomia di un romanzo.

Nei miei romanzi ci sono anche altre ambientazioni, Bologna, Milano, Monaco di Baviera, città che ben conosco, ma i miei personaggi potevano vivere intensamente le loro storie solo nella loro terra, la mia terra.

Io amo la Sicilia,  vi sono indissolubilmente legata.  Se sono diventata quella che sono, mi riferisco come persona, certo lo devo alla famiglia, ai miei studi, alle letture, alle frequentazioni, al mio lavoro, ai miei viaggi, a quant’altro in generale ha potuto contribuire alla mia formazione, ma ritengo  che il crogiolo che ha permesso il tutto sia la mia terra.

Non potrei concepire la vita lontana dalle mie case, belle o brutte che siano, dalle mie strade, dal mio mare, dal mio sole, dalla mia campagna con i suoi colori, con i suoi profumi che si possono percepire  ad occhi chiusi.

Nei miei romanzi i personaggi vivono intensamente  tutto questo. Il caldo, i temporali improvvisi,  il sole accecante, il mare calmo o in tempesta, le afose sciroccate diventano espressione dei loro sentimenti, entrano nella storia, si affiancano ai personaggi come altri personaggi.

Con un’ambientazione diversa avrei avuto difficoltà ad elaborare anche le storie.

Domanda. Che  progetti ha per il futuro?

Risposta.   Nessun progetto in particolare.  Se avrò l’ispirazione, continuerò a scrivere.  Quando inizio un romanzo, non programmo niente, anche le sinossi sono a maglie larghe e possono cambiare. Scrivere, mi diverte, mi coinvolge, mi rilassa, ma non è detto che il romanzo arrivi a pubblicazione.

Se pubblicarlo o meno lo decido alla fine ed io sono la più severa critica di me stessa.

Se il romanzo non lo ritengo valido non ho nessuna difficoltà a lasciarlo nel cassetto.

Questo non significa che sia stato un impegno  inutile, scrivere è sempre utile, anche solo a se stessi.

Per il resto la mia vita sarà quella di sempre, di mamma, di nonna, di moglie, ormai non posso più dire di insegnante.

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Informazioni su Carmelo Aliberti

Carmelo Aliberti è nato nel 1943 a Bafia di Castroreale (Messina), dove risiede, dopo la breve parentesi del soggiorno a Trieste, e insegna Lettere nel Liceo delle Scienze Sociali di Castroreale. È cultore di letteratura italiana presso l’Università di Messina, nominato benemerito della scuola, della cultura e dell’arte dal Presidente della Repubblica. Vincitore di numerosi premi, ha pubblicato i seguenti volumi di poesia: Una spirale d’amore (1967); Una topografia (1968); Il giusto senso (1970); C’è una terra (1972); Teorema di poesia (1974);Tre antologie critiche di poesia contemporanea( 1974-1976). POETI A GRADARA(I..II), I POETI DEL PICENUM. Il limbo la vertigine (1980); Caro dolce poeta (1981, poemetto); Poesie d’amore (1984); Marchesana cara (1985); Aiamotomea (versione inglese del prof. Ennio Rao, Università North Carolina, U.S.A., 1986); Nei luoghi del tempo (1987); Elena suavis filia (1988); Caro dolce poeta (1991); Vincenzo Consolo, poeta della storia (1992); Le tue soavi sillabe (1999); Il pianto del poeta (con versione inglese di Ennio Rao, 2002). ITACA-ITAKA, tradotta in nove lingue. LETTERATURA SICILIANA CONTEMPORANEA vol.I,p.753, Pellegrini ,Cosenza 2008; L'ALTRA LETTERATURA SICILIANA CONTEMPORANEA( Ed.Scolasiche -Superiori e Univesità-) Inoltre, di critica letteraria: Come leggere Fontamara, di Ignazio Silone (1977-1989); Come leggere la Famiglia Ceravolo di Melo Freni (1988); Guida alla letteratura di Lucio Mastronardi (1986); Ignazio Silone (1990); Poeti dello Stretto (1991); Michele Prisco (1993); La narrativa di Michele Prisco (1994); Poeti a Castroreale - Poesie per il 2000 (1995); U Pasturatu (1995); Sul sentiero con Bartolo Cattafi (2000); Fulvio Tomizza e La frontiera dell’anima (2001); La narrativa di Carlo Sgorlon (2003). Testi, traduzioni e interviste a poeti, scrittori e critici contemporanei; Antologia di poeti siciliani (vol. 1º nel 2003 e vol. 2º nel 2004); La questione meridionale in letteratura. Dei saggi su: LA POESIA DI BARTOLO CATTAFI e LA NARRATIVA DI FULVIO TOMIZZA E LA FRONTIERA DELL'ANIMA sono recentemente uscite le nuove edizioni ampliate e approfondite, per cui si rimanda ai relativi articoli riportati in questa sede. E' presente in numerose antologie scolastiche e sue opere poetiche in francese, inglese, spagnolo, rumeno,greco, portoghese, in USA, in CANADA, in finlandese e in croato e in ungherese. Tra i Premi, Il Rhegium Julii-UNA VITA PER LA CULTURA, PREMIO INTERN. Per la Saggistica-IL CONVIVIO 2006. Per LA NARRATIVA DI CARLO SGORLON. PREMIO "LA PENNA D'ORO" del Rotary Club-Barcellona. IL Presidente della Repubblica lo ha insignito come BENEMERITO DELLA SCUOLA;DELL CULTURA E DELL?ARTE e il Consigkio del Ministri gli ha dato Il PREMIO DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO 3 VOLTE. E' CUlTORE DELLA MATERIA DI LETTERATURA ITALIANA. Il Premio MEDITERRANEO alla carriera. Il PREMIO AQUILA D'ORO,2019. Con il romanzo BRICIOLE DI UN SOGNO, edito dalla BastogiLibri di Roma gli è stato assegnato il Premio Terzomillennio-24live.it,2021 Sulla sua opera sono state scritte 6 monografie, una tesi di laurea e sono stati organizzati 9 Convegni sulla sua poesia in Italia e all'estero. Recentemente ha pubblicato saggi su Andrea Camilleri, Dacia Maraini,e rinnovati quelli su Sgorlon, Cattafi,Prisco,Mastronardi e Letteratura e Società Italianadal Secondo Ottocento ai nostri giorni in 6 volumi di 3250 pp. Cura la Rivista Internazionale di Letteratura TERZO MILLENNIO e allegati. Ha organizzato Premi Internazionali di alto livello,come Il RHODIS e il Premio RODI' MILICI-LOMGANE. premiando personalità internazionali che si sono distinte nei vari ambiti della cultura a livello mondiale

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