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CONTINUA IL SUCCESSO DEL ROMANZO “IL MIO MONDO FINIRA CON TE” DI CARMELO ALIBERTI, GIUDICATO UNANIMENTE “UN CAPOLAVORO” NUOVO:

PREMESSA
DI FRANCESCO CONTI
(Poeta barcellonese e Segretario dell’Associazione Culturale Terzo Millennio)
CARMELO ALIBERTI – POETA, SCRITTORE E CRITICO LETTERARIO –
NONCHÈ SAPIENTE CULTORE DI ILLUMINATA E PREGEVOLE
PRODUZIONE LETTERARIA TALE DA ESSERE ANNOVERATO TRA I
MIGLIORI AUTORI DEL NOSTRO TEMPO.
Anch’io avevo pensato di commentare l’ultimo romanzo
“IL MIO MONDO FINIRÀ CON TE” di Carmelo Aliberti,
ma dopo aver letto quanto hanno già scritto autorevoli uomini
e donne di cultura, presenti in questa brochure, ho desistito
perché sicuramente sarei incorso in quella logica di ripetitività
e mi sarei certamente ritrovato nello stesso comune pensiero.
E allora, ricordandomi del desiderio espresso dell’amico
Carmelo di scrivere una mia premessa, da lui definita
“preziosa e storica”, ho ritenuto miglior soluzione, come di
seguito, accontentarlo.
Da molto tempo conoscevo Carmelo Aliberti e, da appassionato lettore, apprezzavo
le sue tanti produzioni letterarie. L’occasione per incontrarlo in presenza è avvenuta
nel mese di agosto dell’anno 2019 presso la sua residenza di Bafia a seguito della mia
richiesta di una sua prefazione per la mia silloge di poesie in vernacolo siciliano ed in
lingua italiana di prossima pubblicazione.
Quel giorno, dopo avergli consegnato la bozza della mia silloge ci siamo salutati
con la promessa che sicuramente mi avrebbe accontentato. E così è stato, infatti dopo
qualche mese mi ha inviato la sua bellissima e qualificata prefazione che,
successivamente, è stata inserita nella mia silloge “A VITA È POISIA” pubblicata nel
mese di luglio del 2021 da Edizioni Smasher di Barcellona P.G. (Messina) e, per
quanto da lui espresso nei miei confronti, ancora oggi, lo ringrazio immensamente.
Da quel nostro primo incontro estivo, sono state tante le amichevoli collaborazioni
intercorse con lui per la realizzazione delle copertine, l’impaginazione dei testi e le
relative stampe delle sue produzioni letterarie che sono di un elevatissimo spessore
culturale e quindi mi ritengo particolarmente fortunato ed onorato di essere stato reso
partecipe a queste sue grandi opere culturali che, sicuramente, mi hanno arricchito
notevolmente e hanno lasciato una traccia indelebile che mi accompagnerà per tutta la
mia vita.
Ricordo il saggio “DACIA MARAINI la più grande scrittrice degli anni ’60”, il
poemetto “TRA IL BENE E IL MALE”, il saggio “Il poeta BARTOLO CATTAFI
cercò disperatamente Dio e lo trovò nell’arcipelago del cuore”, il 6° volume della
“LETTERATURA E SOCIETÀ ITALIANA DAL SECONDO OTTOCENTO AI
NOSTRI GIORNI” di 544 pagine), il saggio “LUCIO MASTRONARDI, scrittore
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scomodo e dimenticato”, la 1^ edizione di 300 pagine della “RASSEGNA DI
AUTORI DEL NOSTRO TEMPO” e la successiva 2^ edizione di 320 pagine e le
quattro edizioni del suo romanzo “IL MIO MONDO FINIRÀ CON TE”.
Durante tutto questo periodo di fattiva collaborazione letteraria, ho avuto
l’occasione e la possibilità di conoscere l’uomo, l’amico, il grande poeta e l’esimio
scrittore Carmelo Aliberti che nelle sue produzioni letterarie con abile maestria e
scrupolosa attenzione, riesce sempre a rispettare il passato, a raccontare il presente e a
saper leggere il futuro.
Nei tantissimi colloqui telefonici e nei moltissimi messaggi email intercorsi con
Carmelo Aliberti ricordo sempre i tanti sui discorsi relativi alla lontananza dalla sua
Sicilia, poiché ormai già da tanti anni e per quasi undici mesi all’anno risiede nella
lontana Trieste e allorquando nei mesi estivi rientra nella sua dimora di Bafia è
tutt’altra cosa, poiché ogni volta si riappropria degli odori lasciati, respira nuovamente
l’aria di casa sua, rincontra gli amici con cui ha trascorso i migliori anni della sua
giovinezza e con i quali ha condiviso i momenti più importanti e, non per ultimo, si
sente rigenerato nel corpo, nella mente e nello spirito.
Descrivere la sua opera poetica è come ritrovarsi di fronte ad emozioni e sensazioni
d’ispirazione lirica e, addentrandosi nei meandri della sua poesia, è possibile cogliere
il cammino esistenziale dell’uomo.
Molto della sua poesia trae spunto da una realtà meridionale e in particolare da
quella siciliana. Per lui la Sicilia non è mai stato un oggetto di affezione morbosa, ma
soltanto un luogo che si vuole far conoscere e si vuole migliorare.
È il luogo ideale di una fitta trama di sentimenti e di emozioni che fanno capo a
mille allusioni e ad alcune reticenze. Nelle sue opere la Sicilia, è la terra che, propizia
di frutti, appare nutrice di amore e di affetti che si contrappongono ai riti millenari
della civiltà contadina, di quegli uomini che sanno offrire la loro fronte al sole perché
la terra porti frutti, e sanno anche soffrire e sopportare.
Concludo questa mia premessa descrivendo il rapporto affettivo che lega entrambi,
alla comune nostra terra natia: l’amata nostra Sicilia con le sue antiche e particolari
tradizioni, le sue contraddizioni e i suoi problemi.
Ma l’eterno, appassionato e sincero amore è anche rappresentato dal nostro comune
atto di fede nei confronti della nostra amata Trinacria, triangolo di sole bagnato
dall’azzurro e cristallino di tre mari, un’isola che, pur tra i suoi molteplici contrasti,
rimane per sempre incastonata nei nostri cuori.
FRANCESCO CONTI
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TESTIMONIANZA CRITICA
DEL PROF.RE GIUSEPPE RANDO
(Professore ordinario di Letteratura Italiana presso la Scuola Superiore Mediatori
Linguistici di Reggio Calabria (già presso l’Università degli Studi di Messina),
critico letterario).
IL MODERATISMO DIFFICILE DI CARMELO ALIBERTI
La più recente fatica letteraria di Carmelo Aliberti, il
romanzo Il mio mondo finirà con te, al pari dell’altro da
lui pubblicato, ma anche alla stregua delle sue raccolte
poetiche, dei suoi saggi e della sua ampia manualistica
letteraria, evidenzia una costante necessità – forse, più
naturale che culturale – di trovare, pur nella varietà dei
generi e delle tipologie letterarie trattate, un avanzato
punto di equilibrio tra varie, anche contraddittorie ed
antitetiche, istanze del nostro tempo.
È un’attitudine, quella di Aliberti, tutta siciliana,
invero, ove si pensi a Verga, a Pirandello e ai grandi narratori dell’isola, e non insolita
– direbbe il sociologo – nella cultura contadina, che appare tanto indomita, risoluta,
quanto flessibile e realistica, ma portata a trascendere naturaliter i fatti singoli
dell’esperienza concreta in un ordine superiore d’idee.
Nel romanzo suddetto, si colgono, d’abord, a una prima, cursoria lettura, una
linea centrifuga e una linea centripeta, che attraversano il testo in senso verticale e in
senso orizzontale, lungo percorsi paralleli, alla ricerca di un difficile luogo di
saldatura, imprimendo tuttavia una notevole tensione narrativa all’opera.
È centrifuga la tendenza a moltiplicare le storie narrate, i personaggi e le diverse
visioni del mondo in un fluire continuo e ininterrotto, che fa pensare più ad Ariosto
che a Dante; laddove è centripeta la vocazione a ricondurre i numerosi rivoli del
romanzo nell’alveo dell’amore salvifico, come in Dante e nel protomodello
manzoniano.
Il romanzo si presta, invero, a molti piani di lettura e racchiude in sé diversi tipi d
racconto: da quello autobiografico (che vede il protagonista, Carlo – alter ego di
Carmelo Aliberti –, siciliano, originario di un paese collinare della provincia
messinese, cattolico, democratico e formato alla luce dei valori preindustriali,
scontrarsi, nella sua difficile ascesa sociale, con i mali storici della modernità); a
quello manzoniano, con ampi squarci sui principali e drammatici eventi socio-politici
novecenteschi, dalla prima guerra mondiale ai nostri giorni; a quello psicologico,
giocato sullo scandaglio introspettivo del protagonista stesso (e di altri personaggi
contigui); a quello sociologico, per il raffronto costante tra la purezza della civiltà
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contadina e la devastante cultura cittadina; a quello religioso, fondato sulla
convinzione della fede cristiana come antidoto al disordine morale e sociale del nostro
tempo; a quello amoroso, di stampo neostilnovistico, intessuto intorno
all’innamoramento di Carlo per Anna, sua conterranea, nonché compagna di scuola,
che gli additerà infine la via della salvezza.
Certo, Alberti offre al lettore un ricco, inesauribile diorama delle facce malefiche
del mondo moderno: il nazismo, il fascismo, il comunismo e, oggi, l’Afghanistan, la
strage dell’11 settembre, il capitalismo della globalità trionfante sono i nemici del
bene e dell’umanità, cui si contrappongono, in specie, la cultura (i grandi pensatori, gli
scrittori antichi e moderni, gli artisti), la democrazia (che trova il suo fondamento nella
costituzione di Pericle) e la religione cristiana, con suoi fondamenti biblici, evangelici,
ma anche tomistici ed agostiniani, e con l’esempio vivente e vivificante di chi si pone
sulla strada di Gesù.
L’occhio vigile e partecipe di Alberti non smette di seguire da presso, fino alla
immedesimazione totale, tutti i vinti, e in particolare gli immigrati di ieri e di oggi (da
Marcinelle a Lampedusa), i giovani in cerca di lavoro e quelli massacrati dalle droghe
e/o dall’edonismo incrollato, alla fine mortuario.
Dicevamo della ricerca albertiana di un punto avanzato di equilibrio: parrebbe, in
effetti, che Carmelo Alberti voglia reagire alla cosiddetta «morte del romanzo»,
evitando sia le sirene del romanzo neosperimentale (che, sulla scorta dell’ultimo
Consolo, vorrebbe azzerare la distanza tra il codice poetico e il codice narrativo, a
tutto vantaggio del primo) sia, parimenti, la degenerazione del romanzo
massmediatico che insegue, per ragioni di mercato, i gusti deteriori del pubblico
(male)educato dalla televisione e dagli smartphone.
Allo stesso modo, sul terreno linguistico, Il mio mondo finirà con te, rifugge sia
dalla restaurazione unitaria, nazionalistica, sia dalla parcellizzazione regionalistica
(dialettale), mirando a mescidare, con misura verghiana, lingua e dialetto.
Le intenzioni dell’autore sono, ad ogni modo, esplicite e nient’affatto dissimulate
in questo multipolare, vasto, interessantissimo romanzo. I modi in cui tali intenzioni
(che non avvalorano automaticamente l’opera né esauriscono tutte le componenti –
anche quelle ignote allo stesso autore – della stessa) riescano a tradursi in una coerente
e convincente resa stilistica saranno sicuramente individuati e descritti, nell’immediato
futuro, dalla critica più avveduta. Ma saranno certamente i lettori non addomesticati
dal potere commerciale a promuovere, «in primis» (come direbbe Camilleri), il
ragguardevole romanzo di Carmelo Aliberti.
GIUSEPPE RANDO
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PREFAZIONE
DI MARIA TORRE
(Scrittrice e pittrice)
UN GRANDE ROMANZO D’AMORE E DI TORMENTO CHE INDUCE A
PROFONDE RIFLESSIONI E NON LASCIA CICATRICI.
Il romanzo, ormai da tempo, ha smesso di essere
strumento d’indagine e di civilizzazione. L’italiano letterario,
poi, è un ricordo lontano. La lingua letteraria è sempre più
povera, congelata, standardizzata. Anche un minimo di
complessità di pensiero e di espressione non piace,
infastidisce.
La narrativa contemporanea è fatta principalmente di
opere di largo consumo, di scarsa cura stilistica e che, il più
delle volte, nasconde l’incapacità mettere sulle pagine una
prosa di qualità.
Spesso gli autori più letti sono quelli che hanno un elevato potenziale
commerciale, non di rado sono volti noti della televisione, che promuovono il loro
“capolavoro” partecipando a qualche programma, preferibilmente di cucina, fra i
fornelli. Nessuna di queste “opzioni vincenti” appartiene a Carmelo Aliberti.
Esaminando tutta la sua vasta produzione letteraria ci rendiamo conto che a Lui, e
solo a pochi altri, spetta, oggi, il merito di avere ridato dignità alla letteratura. Anche
la sua ultima fatica letteraria “IL MIO MONDO FINIRÀ CON TE” ne è un esempio.
È un romanzo ricco di sfumature colte, affreschi storici, drammi, flussi di
coscienza, tormenti, sogni, speranze.
Non mancano intensi monologhi con il proprio io. Filone principale del romanzo
è l’Amore, quello con la A maiuscola, fra Carlo e Anna, la sua Beatrice.
L’Aliberti, come un novello Dante, viaggia attraverso il tempo, annodando su
questo filone principale altre microstorie, crude, schiette e spesso violente; ci
sventaglia le ingiustizie, l’arroganza e le follie di chi detiene il potere, la ferocia e la
disumanità delle guerre.
Riflette sulla predisposizione dell’umanità al male e alla violenza e come
Salvatore Quasimodo, constata che la natura umana è incapace di evolversi.
Cambiano i mezzi, cambiano le forme, cambiano gli intenti, ma dietro la
maschera dell’evoluzione si nascondono sempre i primordiali istinti di violenza e di
sopraffazione dell’uomo primitivo, “UOMO DEL MIO TEMPO /sei ancora quello
della pietra e della fionda… senza Cristo/ Hai ucciso ancora, come sempre… E questo
sangue odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello: andiamo ai
campi”.
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Altro protagonista del romanzo, oltre all’Amore, è la Fede. Un sentimento
religioso che Aliberti ha sempre respirato in famiglia. Momenti struggenti, delicati,
emozionanti sono quelli dedicati ai suoi familiari. Familiari che io ho avuto il
privilegio di conoscere personalmente. Il padre, “poeta e filosofo” come lo aveva
definito mio padre. Il fratello Ninai, una cara persona disponibile ed amata da tutti.
La sorella suora, un’anima pura e delicata.
Aliberti con la sua penna ci presenta il mondo nella sua interezza, in tutte le sue
sfumature, ma con uno sguardo particolare alla sua amata Sicilia, un tempo tempio di
arte e di cultura, dove si assaporano profumi, colori e dove dimora la bellezza della
natura.
Terra intrisa di miti e leggende, terra dove pascolavano gli armenti del Dio Sole,
già benedetta da Demetra, terra dove Galatea, con il suo pianto perenne per avere
perduto il suo amato Aci, fece sorgere un ruscello che prese il nome di Longano.
Purtroppo da questa nostra splendida e amara isola si è spesso costretti a fuggire,
se si vuole “riuscire a creare i presupposti per formarsi una famiglia, con uno stabile
rapporto di lavoro…dopo le delusioni inflitte dal nuovo stato unitario… che non
aveva mantenuto le promesse garibaldine…”
Non vi è dubbio che l’autore con la sua straordinaria capacità narrativa e il suo
stile colto, ma comprensibile a tutti, ci ha regalato un grande romanzo, che ci induce
seriamente a profonde riflessioni su ciò che realmente è la vita. Un soffio di vento,
direi io, e ognuno di noi dovrebbe lasciare impronte, non cicatrici.
MARIA TORRE
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INTRODUZIONE
DI LUCIO ZANIBONI
(Poeta, scrittore e critico letterario)
I Promessi Sposi, il celebre romanzo storico di
Alessandro Manzoni, pietra miliare della Letteratura Italiana,
e non solo dell’Ottocento, ebbe vita con il titolo di “Fermo e
Lucia” nel 1823; vi fu una seconda redazione con “Gli sposi
promessi”, mentre la terza edizione vide la stampa tra il 1840
e il 1842. L’autore ebbe quindi ripensamenti, incertezze,
travaglio riflessivo, prima di rendere propria la creatura
partorita. L’artista vero non è mai pago della propria arte, nel
confronto realizzazione-perfezione. “IL MIO MONDO
FINIRÀ CON TE” di Carmelo Aliberti, poeta, critico
letterario e romanziere alla seconda prova narrativa esce
un’edizione ampliata, arricchita e in parte trasformata.
La prima edizione aveva ottenuto vasta risonanza nel mondo asfittico della
narrativa odierna, in cui i libri nascono come funghi destinati a spegnersi nel bosco.
Questi ultimi hanno almeno l’utilità di apportare umidità all’humus, mentre i libri
inutili comportano spreco di carta e danno all’ambiente, già depauperato da una
gestione indegna del patrimonio naturale.
Il romanzo di Aliberti, considerato apportatore di un soffio vitale alla narrativa, si
era conquistato il posto di Libro del mese (luglio-agosto) scelto dalla Rivista
CULTURA OLTRE, mentre molteplici recensioni avevano messo in luce “vis”
narrativa e novità tematico-strutturale.
Anche Carmelo Aliberti, come il Manzoni, non ha sentito subito sua l’opera
pienamente appagante e, nell’ansia continua di immettere anima nei suoi personaggi e
nella costante urgenza di poterli riconoscere come figli cui affidare pensiero,
sentimenti, filosofia e significati nelle forme più proprie e aderente a tempi, ambiente
e situazioni, presenta ora la nuova situazione dell’epoca rivisitata e accresciuta con
l’aggiunta di varianti, in cui trasferisce una più evidente specularità della seduzione
della mitologia dell’Avere, a danno della trasparenza pura dell’Essere.
Allora la cornice narrativa si allontana dalla sclerosi strutturale preconfezionata e
lo scrittore, che attraverso l’intensità del suo lavoro di critico, da anni impegnato a
rileggere con inediti strumenti critici, quasi tutti di incisiva endoscopia radicale e con
un linguaggio e una metodologia, resi più fruibili con flessibili opzioni verbali e con
l’inserimento di brani epistolari inerenti al contesto sotterraneo in cui vibrano i nuclei
tematici sotterrati concretamente dalla rapacità e dagli inganni segreti delle categorie
politiche che si sono radicate, nel corso degli anni, al loto del potere.
Per cui, Aliberti affida al suo personaggio principale il flusso di coscienza
individuale, scaturito nella cornice della storia che continua a sgorgare, come un film,
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dagli antri della memoria e, durante il viaggio in auto di ritorno al paese passa in
rassegna i nodi più dolorosi e orrorosi che hanno troncato il suo percorso esistenziale e
ucciso i dolci sogni di poter vedere sorgere una nuova società, irrorata dalle utopie
giovanili.
L’inestinguibile ampolla d’amore si è radicata inestirpabilmente nel respiro di
Carlo, che affida all’aquilone degli ideali la guida della sua esistenza, ma l’ostilità del
destino rapisce le creature amate da lui, che sfugge ad una mortale e allucinante
depressione nella paziente saggezza di un uomo di altra generazione, che lo guarisce
dal male di vivere e trama personaggi che gli fanno scoprire il vero senso della vita.
Carlo ha una compagna di scuola, Anna che lo conquista per la grazia, la bontà,
l’altruismo. È avvinto dal suo viso angelico, dagli occhi sinceri, dalla generosità
d’animo, che la spinge a suggerire, a scuola, le risposte ai tentennanti compagni
interrogati: tutto questo fa breccia nel velo sottile che copre il cuore di Carlo.
Anna è per lui, come Beatrice per Dante. La sua visione riflessa sui vetri della
Cattedrale di Castroreale dalla freccia scottante del sole, in un frammento del viaggio
di ritorno al paese, attraverso un varco tra le case in contrada Simiglianò, folgorò il
suo sguardo, ondeggiante sulla spaziosa vetrata policroma, tanto che rimase abbagliato
dal rimbalzo all’indietro di un’onda dorata che provocò in lui una sorta di elettrica
vertigine.
Simultaneamente affiorò nella sua mente il disegno etereo di un visino ben noto,
che sconvolse ulteriormente il suo cuore, già in sanguinanti schegge di agonia. Presa
coscienza che quel visino di una suprema bellezza, era certamente quello della sua
Anna che seguiva tacitamente il suo percorso.
Carlo, allora non riuscì a contenere le lacrime, che si trasformarono in rabbioso
pentimento contro se stesso che aveva continuato la sua corsa senza sosta,
maledicendo se stesso perché non si era fermato per poter provare un po’ di sollievo
nell’intrecciare i suoi occhi con quelli dell’”amorosa visione”, da “Dolce Stil Novo”,
che ritorna in una nuova luce. C’è una continuità di fondo tra i tre autori. Dante,
Manzoni e Aliberti che rende pensieri e sentimenti in forma equipotenziale.
Il richiamo dolce-stilnovistico è reso da Aliberti in tinte pastellate, mirabilmente
accordate a descrivere candore, ingenuità, rossore, emozione e pudore della ragazza.
Carlo per naturale riservatezza e per timore di urtare la sensibilità della compagna,
trattiene la piena dei suoi sentimenti, e involontariamente tace anche quando il ricordo
lo spinge sulle orme delle passeggiate verso il vicino castagneto di Malasà, dove il
giovane studente raccoglieva le viole e i ciclamini, per farne omaggio alla compagna.
Quel blocco interiore rimarrà nel ricordo di Carlo, facendo nascere un rimpianto
irreparabile, in quanto Anna, la fanciulla che rappresenta il suo angelo, la gioia dei
suoi giorni, inaspettatamente muore.
Vi ruotano altre vicende autobiografiche, in cui si palesa lo stesso Aliberti, che
conosce bene l’arte della guerra fino ai giorni nostri. È questa di Aliberti un’opera
completa, senza che vi sia una tematica che non sia stata trattata, compresa la storia
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greca e romana. La storia è letta alla lente della verità, senza reticenze o sconti
nell’attribuzione di meriti e demeriti delle parti. Così la denuncia delle leggi razziali,
il genocidio degli ebrei, le foibe, le missioni umanitarie, durante i conflitti, le
ricchezze degli appalti truccati, gli intrallazzi durante il covid.
Nella sua mappa procede ora con lirismo serrato, ora disteso in descrittività che
ha in armoniche visioni, accenti musicali, passi in lingua italiana o in dialetto,
oltremodo convincenti e l’opera crea arricchimento culturale e spirituale per il lettore.
Si sente che la fede non è pretestuosa, ma profondamente radicata, basata sul
Vangelo, sul Cristo chiodato alla Croce, sulle vie di Tommaso e Le confessioni di
Sant’Agostino. Oltre alla fede in Dio, vi è il culto del sapere, delle grandi opere
letterarie e artistiche, patrimonio dell’umanità.
Nessuno dei grandi nei vari campi delle lettere, delle arti e del pensiero viene
dimenticato e anche qui si evince la forza divulgatrice della cultura che già fin da
ragazzo urgeva in lui, sospingendolo a creare aggregazioni, rappresentazioni severe,
innovazioni. Chiaramente questa sua anima aperta all’altro, al dono, al culto del bello
e del vero, non può rimanere indifferente di fronte allo sfacelo dei costumi, alla
depravazione e al barbaro stupro-spettacolo di donne e bambini, al femminicidio, al
parricidio e viceversa.
Il libro è anche la denuncia dei mali di questo mondo. È il grido di Munch per la
devastazione del pianeta, per l’inquinamento con le scorie radioattive e la diossina del
profitto, la catena di montaggio, il fuoco degli altiforni che riduce a robot l’individuo,
lo sfruttamento del lavoro in ogni settore della produttività industriale, artigianale e
agricola, di cui esemplare esempio è Giobbe.
Egli nel Vecchio Testamento simboleggia il doloroso tormento della sua
presunta, mancata fede in Dio e, nella realtà moderna, il povero, che preme ai cancelli
della fabbrica, cercando lavoro per sopravvivere alla fame, è costretto a sparire,
rosolato dalla vampa degli altiforni.
È la rivolta ad un mondo che sta sfidando Dio, per sostituirlo con il nuovo diodenaro e appagare la sua arroganza, irresponsabile del ruolo che il Creatore gli ha
assegnato fin dal momento della creazione. C’è la fame di milioni di persone costrette
all’esodo dal Sud al Nord, all’Europa e al mondo. C’è il trionfo di un capitalismo
crudele che schiaccia le masse e riduce i poveri in indecente miseria.
Sono innumerevoli le voci sublimi o le disumane distorsioni dell’uomo sapiens
sapiens, come le guerre individuali e collettive, apportatrici di dissennati orrori, sulla
scia del fratricidio di Caino.
Dopo la seconda guerra mondiale, conclusasi con l’uso della prima e seconda
bomba atomica, che distrusse e avvelenò una vasta area del globo, falciando intere
città e impregnando l’aria di miasmi mortali per un lunghissimo periodo, la nascita
dell’ONU, per numerosi decenni aveva arginato le lotte con metodologie pacifiste tra i
popoli della terra.
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Ma occorre ricordare che i totalitarismi avevano seminato milioni di morti,
ammorbato il clima e avvelenato di odio mortale e liberticida il cuore dei buoni
sopravvissuti, per cui, se il mondo ha potuto godere di un settantennio di relativa pace,
coltivando i valori del bene, il rispetto del diritto, la solidarietà, il dettato di Pericle e la
legge evangelica, la guerra è ritornata in Ucraina, proprio nel cuore dell’Europa,
insanguinando il territorio dorato del grano e trasformando i papaveri in un continuo
gocciolare di sangue.
In questa sua narrazione, il romanziere è contemporaneamente storico, si avvale
spesso del gergo locale e del salto verbale in giochi di flash-back sicuramente incisivi,
in grado di destare interesse e partecipazione dei lettori.
Allora s’innalza irresistibilmente l’ago sottile e vibrante della poesia, quando
Carlo sfinito sviene nei meandri architettonici della arcaica civiltà della Sicilia
occidentale.
A Selinunte, il giovane si sente illuminato dentro dal riecheggiamento nel cuore
della valle di un canto religioso che si libra dal greto del fiume, inframmezzato dalle
pause del soave concerto degli uccelli, paradigmato dai timbri vocali di una canzone
“Chiamami sempre Amore” di Roberto Vecchioni.
Il delirio di Carlo viene risucchiato nel canto, in cui avverte la presenza invisibile
di Anna che silenziosamente ha vegliato sull’immenso dolore interiore della persona
amata.
L’opera “IL MIO MONDO FINIRÀ CON TE” racchiude in sé, come l’opera
manzoniana nell’Ottocento, l’intero mondo con le sue conquiste, le sue cadute e il
baratro che potrebbe inghiottirci con una guerra totale, di cui si percepisce il terrore.
Tuttavia, avendo nella Croce il segno della vita, esiste ancora il germe della
speranza che potrà essere guida per la rinascita individuale e collettiva.
LUCIO ZANIBONI
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NOTA CRITICA
DI FRANCESCA ROMEO
(Giornalista e scrittrice)
Esiste un parallelo tra la grande letteratura e “Il mio
mondo finirà con te” del professore e saggista Carmelo Aliberti.
Un sottile filo rosso che, pagina dopo pagina, dipana sfumature
colte, affreschi storici, ampie volute sociali, drammi, tormenti,
sogni, speranze, crude necessità. Un romanzo che cammina di
pari passo con la realtà, ma che, come assaporando una soffice
“madaleine”, libera il fluire della coscienza, spalancando le
porte a quel realismo interiore in cui l’autore spesso si lascia
naufragare. Ed ecco gli intensi monologhi con il proprio io, a volte nostalgici, altri
schietti. Invettive che si sciolgono in larghe riflessioni, come dentro il “mare di
Senofonte”, in cui si scorge l’anima, la casa, la salvezza. Snodi letterari che spezzano il
continuum spazio-narrativo ed in cui trasbordano ricordi senza confini. Un’equilibrata
ciclicità cui ad ogni ekpirosi (distruzione) corrisponde una palingenesi (rinascita) ed in
cui si ravvede in potenza tutta l’enàrgheia e l’enèrghia insita nel romanzo. “Non ho
orologio, non mi serve più. Non so dove sono, non ricordo chi sono e da quanto tempo
cammino su una landa deserta, una distesa ondulata, bruciata dall’afosa calura del
sole” scrive l’autore in una delle pagine più emblematiche del romanzo. Epilogo del
lungo viaggio intrapreso come in sella al suo simbolico “ippogrifo”, Carlo – il
protagonista – s’inerpica in questo topos letterario d’effetto per comprendere e
comprendersi. Per ricercare e purificarsi, per crescere interiormente, in una travagliata
gestazione che lo spinge a rivedere la luce.
Come un novello Ulisse o un Dante redivivo, o prima ancora come Gilgamesh,
osa spingersi oltre simboliche colonne d’Ercole, scendere nell’Ade, affrontare i suoi
demoni e risorgere. E lo scopriamo attraversando insieme a lui quelle “waste lands”
(terre desolate) in cui tutto sembra quasi desertificarsi fino allo stupore di trovarsi nel
grembo antico di “Selinon”, dove, in un parallelo con il V canto dell’Inferno, anche
Carlo, “come corpo morto cade”, sviene. Una scelta del luogo certamente non casuale.
Selinunte fu così chiamata in virtù del sedano che vi cresce selvatico. Pianta sacra
collegata al culto dei morti in diverse civiltà antiche, ma che ritroviamo anche nel
“karpas”, un rituale ebraico del seder pasquale, simboleggiante la primavera e la
mietitura. Ritorna così il topos della rinascita, che Aliberti ora cela, ora palesa, altre
lascia intuire, attraverso l’intima compenetrazione tra finito e infinito. “Dal tragico
teatro di morte e di distruzione”, come l’autore stesso scrive ricordando il terremoto
che sconvolse il Belice, sino alla “Gibella del martirio” citando la celebre opera del
noto artista di fama internazionale Emilio Isgrò, seguiamo l’odissea emozionale che
sconvolge e fa risorgere il protagonista, attraverso “un oceano di pianto e di
preghiera”, come scrive Aliberti, che “penetrò nel cuore come il Tu scendi dalle
stelle”.
In una melodia trasportata dal vento, in cui riconosce “Chiamami ancora amore”
di Roberto Vecchioni, ode una voce di donna che lo scuote dal torpore, che altri non è
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se non la sua amata Anna sfumata “in questo disperato sogno tra il silenzio e il tuono”
(cit. Vecchioni). L’autore ci pone così di fronte ad un’invenzione in cui i versi della
canzone si fanno messaggeri alati di qualcosa di più alto e nobile, riportando il
protagonista alla comprensione che l’uomo non deve, e non può, dimenticare sé stesso.
Una sorta di “dasein” heideggeriano che si sviluppa nella costante tensione del
protagonista verso ciò che lo circonda (passato, quindi storia, e presente) e che, alla
fine, egli riesce a manipolare e riorganizzare in un processo introspettivo che lo
condurrà alla sua rinascita. Sì perché Carlo è tutt’altro dall’essere un personaggio
piatto o ripiegato su sé stesso. Egli è l’antitesi del giovane Werther. Se da una parte
anche qui il lettore tende a proiettare le proprie aspirazioni deluse sul personaggio
alibertiano, tuttavia dall’altra Carlo risorge. Di fronte ad una serie di avvenimenti che
sembrano destinarlo all’infelicità, Carlo sceglie di vivere. Non a caso nella IV di
copertina Aliberti sceglie “La nascita di Venere” di Botticelli, icona forte della
grandezza di Firenze e del Rinascimento.
Una forza d’animo che traspare già dalla metaforica scelta della copertina, ovvero
la figura di Giobbe nella Bibbia, colto però non nell’accettazione del subire, secondo
la sua proverbiale pazienza, bensì come colui che chiama Dio, lo prega, gli chiede il
perché. Un lamento eterno che si leva al cielo e che l’uomo, nella sua condizione di
assoluta finitezza, fa suo. Giobbe non rinuncia. Giobbe sa attendere. Sfumature
trobadoriche e saggi di uno schietto verismo, in una moderna ibrida lettura del
romanticismo, si dipanano in un romanzo in cui il particolare ed il tutto si fondono in
una cultura dell’entusiasmo, lasciando esplodere il sentimento del sublime e svelando
l’Amore quale protagonista incontrastato dell’opera. Un amore puro, delicato, sincero,
capace di elevarsi oltre e diventare agape, caritas, positività, perfezione. A viverlo
sono i due attori principali: Carlo e Anna.
Lui un ragazzo pulito, buono, sognatore, ricco di valori. Lei una ragazza bella,
candida, genuina, saggia, nei cui tratti l’autore dipinge una creatura indefinita, una
musa, un angelo. Una presenza costante nella vita di Carlo, anche dopo la sua morte, e
che, proprio come Beatrice, lo condurrà alla perfezione e che, proprio come Dante,
egli incontra già da bambino. Aliberti riesce così ad incastonare nella cultura
contemporanea una storia che segue i canoni di un amore cortese, rendendolo
profondamente attuale e vero, senza tuttavia perdere il legame con il sublime empireo
dell’amore irraggiungibile. Un amore il cui ricordo lo accompagnerà sempre e che si
paleserà in uno scorcio di delicata impetuosa poesia. Durante una sua visita a
Castroreale, l’autore viene improvvisamente “folgorato” da una luce che faceva
“ardere” la vetrata della cattedrale castrense. Ne scorge “il volto impomatato di una
ragazza con il sorriso disegnato sulle labbra”. Una figura leggiadra, eterea,
appartenente ad un altro mondo, che scuote il suo animo, che suscita in lui una sequela
di ricordi che non riesce a collocare nello spazio e nel tempo, di cui non comprende
subito il significato, ma che lo lasciano turbato.
Al filone principale dell’amore puro tra Carlo e Anna, Aliberti annoda altre
microstorie, crude, schiette e spesso violente dei personaggi secondari. Storie laceranti
di amori malati e convulsi, incapaci di elevarsi e pertanto costretti a consumarsi tra le
pieghe di un raccapricciante inferno terreno. A queste storie nere si aggiunge l’eterno
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calvario dell’uomo nel suo status di lavoratore – schiavo, vittima silenziosa delle
angherie del padrone – industriale. Ne nasce così un interrogarsi e un interrogare sul
perché del male e della sofferenza in quell’amara condizione di sfruttamento che
cavalca i secoli e si ripropone, oggi come ieri, facendo leva sullo status di bisogno del
lavoratore. Esperienze traumatiche, delusioni e disillusioni, crude verità, che in quel “I
poveri saranno sempre poveri” si palesa una sfumatura derobertiana, riportando alla
mente l’amara – ma vera – riflessione di Consalvo “La storia è una monotona
ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni
esteriori mutano (…) ma la differenza è tutta esteriore” (cit. De Roberto, I Vicerè).
Scorgiamo così l’eterna circolare miscellanea, dal sapore vichiano, con i suoi corsi e
ricorsi storici, ma in cui agostinianamente tempo e anima sono collegati, permettendo
la misurabilità del passato attraverso la memoria. Amore, meschinità, fatica
quotidiana, difficoltà, ideali, affetti familiari si rincorrono e si sovrappongono in un
universo superiore. Si avviluppano e si dipanano. Si palesano e si nascondono. È la
straordinaria capacità narrativa di Aliberti che, come seguendo uno spartito, elabora
note per suonare diverse melodie. Descritte con carezzevoli pennellate, pregne di
grumi nostalgici, sono invece le figure materne. Madri capaci di annullarsi del tutto
per vivere in funzione del figlio. Madri protettrici, forti e fragili allo stesso tempo.
Simbolo della famiglia, di quel nido cui sempre ritornare. Madri di un tempo,
struggenti e belle, commoventi come la madre di Cecilia dei Promessi Sposi.
E ancora nel romanzo troviamo un suggestivo carosello di personaggi noti, di
colte citazioni e rimandi, di fatti di cronaca e attualità. Da Pericle, alla seconda guerra
mondiale, all’Afghanistan, all’11 settembre, ai drammi di una Sicilia vessata dal
caporalato, ai tesori d’arte di un Isola che assurge a patrimonio dell’umanità.
Caravaggio, Guttuso, Migneco, Quasimodo, i miti di Colapesce e della fata Morgana,
e molto altro ancora, brillano tra le pagine come perle preziose custodite in uno
scrigno. Aliberti getta uno sguardo profondo anche alla fuga dall’isola dei tanti
giovani in cerca di lavoro e affermazione, al dolore della lontananza. E la fede,
coprotagonista insieme all’amore, muove ogni cosa. Una fede di manzoniana
memoria, radicata nella famiglia, ricca di speranza e fiducia in quel Dio che
“provvede” alle sue creature. Ecco che ogni incontro narrato diventa testimonianza
umana capace di infondere refrigerio all’arsura delle sofferenze. Ancora una volta
tutto si svolge in quella Sicilia bella nei suoi colori e calori, terra natia dell’autore,
narrata tra passato e presente, colta nelle sue molteplici fascinazioni, depurata dagli
stereotipi, tradita da quelle classi politiche impegnate solo a procacciare i propri
interessi, dilaniata da quella cruda contraddittoria sicilianità, avvolta da un fin troppo
longevo torpore metafisico. Carmelo Aliberti, con il suo stile colto, eppur
straordinariamente comprensibile a tutti, ci regala così un altro capolavoro, intriso di
un forte realismo verghiano, capace di descrive minuziosamente dall’interno ogni suo
personaggio o fatto narrato. Un romanzo che rinchiude dentro sé mille altri piccoli
romanzi, tutti perfettamente uniti dal filo rosso di ciò che è realmente la vita.
FRANCESCA ROMEO
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ARTICOLO DI SEBASTIANO SAGLIMBENI
(Poeta, traduttore, docente di lettere e giornalista)
Tratto da giornale online IL NUOVO SOLDO (Messina)
IL MIO MONDO FINIRÀ CON TE è il titolo del
romanzo di Carmelo Aliberti, poeta e saggista, una edizione,
rivista e integrata. Abbiamo letto questa recente fatica singolare,
dai contenuti che sono di narrazione, di storia contemporanea
con riguardo alla nostra grande, mitica e martoriata Trinacria,
dove è nato l’autore e dove, a Messina, ha conseguito la laurea
che gli ha consentito di insegnare per anni nelle Scuole medie
superiori materie letterarie. Il romanzo si apre con una doviziosa
nota critica della giornalista e scrittrice Francesca Romeo che scrive, fra l’altro,
“Sfumature trobadoriche e saggi di uno schietto verismo, in una moderna ibrida lettura
del romanticismo, si dipanano in un romanzo in cui il particolare ed il tutto si fondono
in una cultura dell’entusiasmo, lasciando esplodere il sentimento del sublime e
svelando l‘Amore quale protagonista incontrastato dell’opera”. Con una rara analisi, la
Romeo nelle più pagine dell’opera, ha osservato la scrittura articolata di Aliberti. E al
lettore – ci pare di osservare -, con un’analisi del genere, potrebbe così cadere la
volontà di inoltrarsi nelle quasi 300 pagine del romanzo. Nel libro c’è tanto del
narratore Aliberti, che sin da allievo delle Scuole primarie si era rivelato verseggiatore,
vi si leggono pure testi poetici di nostri autori, come, ad esempio, “Uomo del mio
tempo”, “Epigrafe per i caduti Marzabotto”, “Ai fratelli Cervi”, del Nobel Salvatore
Quasimodo e di altri autori del passato e del nostro tempo analizzati dal narratore.
Sono il poeta Bartolo Cattafi, il poeta ed artista Emilio Isgrò, il poeta e politico Nino
Pino Balotta e il mitico scrittore Andrea Camilleri, scomparso di recente. Tutti autori
che hanno lasciato in vero semi di eccelsa conoscenza. Dotate psicologicamente le
figure muliebri della madre di Carlo e di Anna. Aliberti – traspare dalle pagine del
romanzo -, ha tanto inteso la fede cristiana, come trasmessa dalla grande scrittura
agostiniana e manzoniana. La madre, si accennava sopra, e per chi ci leggerà, qui un
tratto della prosa di Aliberti che la fa parlare con naturalezza del protagonista Carlo.
“Tu capivi e mi prendevi per mano, dicendomi: “Carlo vieni, vieni con me, sai sono
nati gli agnellini, guarda come saltellano allegramente e si attaccano subito alle
mammelle della madre, che riconoscono già, tra le altre pecore. È una gioia per tutti,
vedere come sono felici di essere venuti al mondo, come pure la madre che li protegge
costantemente. Su andiamo, così, potremo anche passare nel pollaio e prendere le uova
fresche delle nostre galline, che anche tu mi hai aiutato a crescere. Faremo una bella
frittata che a te piace tanto“. Un tratto che rievoca quegli anni della civiltà contadina
scomparsa che l’autore, nativo di Bafia, comunità collinare del versante tirrenico
messinese, la visse con quei lavoratori a giornata e la povertà che imperversava e
l’agognata emigrazione. Un romanzo pure di risposta e sdegno, che si contemplano nel
riporto di cronache tragiche e nella descrizione della guerra odierna, un romanzo nel
quale viene ricordato ed odiato il fascismo e il nazismo.
SEBASTIANO SAGLIMBENI
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NOTA DI LETTURA
DI NINO MOTTA
(Giornalista e redattore di un quotidiano del gruppo Repubblica)
Con “IL MIO MONDO FINIRÀ CON TE”, il suo secondo
romanzo, Carmelo Aliberti, poeta e saggista, dal punto di vista strutturale e tematico
non si discosta molto da “BRICIOLE DI UN SOGNO”, il romanzo col quale ha
esordito nella narrativa, suscitando, per la sua novità, non poco interesse sia tra i lettori
che tra i critici. Come in “BRICIOLE DI UN SOGNO” il percorso narrativo si snoda
attraverso aforismi, brani di poesie dello stesso Aliberti, e di altri grandi poeti, da
Dante a Quasimodo, frasi in dialetto siciliano.
Protagonista del romanzo, alter ego dell’autore, è Carlo. Nato in un borgo del
profondo Sud, Bafia, abitato da contadini e pastori, Carlo, trascorre un’infanzia felice.
La famiglia lo educa ad amare e rispettare il prossimo, a essere solidale, ad aiutare chi
si trova in difficoltà, a ospitare chi non sa dove andare.
Crescendo, si circonda di amici, con i suoi stessi ideali, e insieme si prodigano,
promuovendo una serie di iniziative, tra cui la creazione di un circolo culturale e la
fondazione di un giornale, affinché tanti loro coetanei, che avevano abbandonato la
scuola per aiutare i loro genitori nei campi, non rimanessero abbandonati a se stessi.
È allora che Carlo incontra una ragazza, Anna, della quale si innamora
perdutamente. E ne viene ricambiato. Il loro è un amore vero.
Ma un destino crudele, strappando alla vita prematuramente Anna, impedisce ai
due giovani di potere un giorno coronare, dinanzi all’altare, il loro sogno d’amore.
Carlo, perdendo Anna, si sente perso. In un primo momento intravvede un’àncora di
salvezza in una bellissima ragazza, Rosa, “somigliante nel corpo e nel cuore ad Anna”.
Rosa aveva abbandonato la scuola, per sfuggire al maestro e al confessore che
“pretendevano” da lei “qualcosa di vergognoso e meschino“, preferendo vivere
totalmente in campagna in compagnia delle sue caprette e conigli che “sono creature
migliori degli uomini”. Un giorno la ragazza decide di trasferirsi a casa di Carlo.
Carlo spera che Rosa, con il suo amore, possa fargli ritrovare la serenità e
“liberarlo dalle nefandezze della società”. Ma dopo qualche tempo Rosa,
inspiegabilmente, sparisce. Carlo la cerca ovunque, si spinge fino a Lampedusa, dove
vede da vicino la situazione degli immigrati, ma di Rosa si sono perse le tracce. Carlo
ora si ritrova di nuovo solo.
Intanto gli eventi ai quali gli capita di assistere e le riflessioni su quanto accade
nel mondo lo fanno piombare in un profondo stato di angoscia esistenziale. Ad
indicargli la strada come uscirne stavolta, come vedremo, sarà Anna, l’unica donna
che ha veramente amato nella sua vita.
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L’evento che più lascia il segno nel giovane Carlo è la perdita, a partire dalla fine
degli anni Sessanta, di quei valori della civiltà contadina, quali la generosità,
l’altruismo, la solidarietà, che i suoi genitori gli avevano inculcato. Valori spazzati via
dalla società consumistica prima e dalla globalizzazione poi.
Contadini e pastori, per sfuggire alla miseria, abbandonano le campagne e
emigrano prevalentemente nel triangolo industriale del Nord, in Svizzera e in
Germania. Con le loro rimesse aiutano economicamente le famiglie rimaste a casa.
La contropartita dei benefici arrecati dalle rimesse era rappresentata dalla triste
odissea alla quale questi emigranti, per lo più analfabeti, spesso andavano incontro.
Sfruttati, se non addirittura ridotti a uno stato di asservimento, non avevano gli
strumenti per far valere i loro diritti. La mancanza di misure di sicurezza nei posti di
lavoro talvolta sfociava in tragedia, come è accaduto nell’agosto 1956 nella miniera di
carbone di Marcinelle, in Belgio.
Allo sfruttamento da parte dei ricchi proprietari terrieri del Sud si sostituiva
quello dei capitani d’industria del Nord. Anche Carlo, sebbene avesse conseguito
all’Università di Messina una Laurea in Lettere col massimo dei voti, aveva dovuto
separarsi dagli affetti più cari, non essendoci a Bafia le condizioni per poter lavorare e
dedicarsi alla poesia, la sua grande passione.
Gli strumenti culturali di cui dispone gli consentono di ampliare l’orizzonte delle
sue riflessioni. Si rende allora conto che “questo mondo è contagiato da un morboso
male di vivere, generato dal denaro, il nuovo dio adorato dai grandi capitani del potere
finanziario”.
Riflette sugli orrori e la barbarie delle guerre nelle quali vengono impiegate “armi
sempre più sofisticate”; sull’ignominia delle leggi razziali e lo sterminio degli Ebrei
nei lager nazisti; sulla piaga della corruzione dilagante e del lavoro nero; sul mancato
rispetto dell’ambiente e sulle tragiche conseguenze che il riscaldamento globale
potrebbe avere; sulle violenze, che spesso sfociano in efferati delitti, perpetrati contro
donne e bambini; sull’indifferenza, per non dire ostilità, nei confronti degli immigrati,
in fuga dalla miseria e dalle guerre, i quali anziché essere accolti e aiutati, da parte di
alcuni Paesi europei si sbarra loro la strada erigendovi muri.
Temi sui quali il protagonista del romanzo, alias Aliberti, si sofferma
ampiamente, con uno stato d’animo che oscilla tra il disprezzo e l’invettiva contro i
detentori del potere e l’amarezza e il dolore per le condizioni di vita degli umili e degli
oppressi. Non vengono risparmiati neppure gli scrittori, mondo del quale fa parte
anche l’autore.
“Oggi, purtroppo”, rileva Carlo, “gli assoluti valori della vita sono stati ripudiati
dagli scrittori. Si scrive solo per narcisismo e per le vendite: il romanzo è espressione
di interesse economico, politico e carrieristico, e non per lasciare un’impronta
educativa e formativa delle nuove generazioni”.
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“Non era questo il mondo che da ragazzi sognavano”, dice Carlo rivolgendosi ad
Anna, “credevamo che 2.000 anni di predicazione evangelica avrebbe migliorato il
genere umano, liberandolo dalla schiavitù, dall’ignoranza e dalla barbarie e lo avrebbe
ingentilito nei pensieri e nei comportamenti, invece le nostre ingenue illusioni erano
piantate in un terreno sterile.
Ora io, dopo aver peregrinato sulla terra, piangendo per la tua partenza, ho
provato a ritrovare te in un’altra umile creatura per aiutarmi a sopravvivere, ma, come
tu sai già, si è volatilizzata misteriosamente. Perciò, ora che ti sento ancora accanto a
me e mi porgi generosamente la mano per consolarmi e sostenermi, manterrò la
promessa fatta a quel pastore, incontrato durante uno dei miei ritorni a Bafia, di andare
a trovarlo.
In quell’incontro, il pastore, vedendomi in uno stato di grave prostrazione, mi ha
indicato la strada per non lasciarmi travolgere dalle seduzioni e dagli inganni della
società e assicurato che, in caso di difficoltà, l’uscio della sua capanna sarebbe stato
sempre aperto per me”.
Mi sono così incamminato verso la sua mandria. È un pastore che vive solo, in
compagnia delle sue pecore, che hanno imparato a volerlo bene, senza mai allontanarsi
da lui o smarrirsi altrove.
Con sé Carlo porta il discorso sulla democrazia fatto da Pericle, nel 431 a.C., agli
Ateniesi e riportato dallo storico Tucidide. Un discorso in cui parlava di una società
più equa, solidale, rispettosa delle libertà individuali in armonia con le libertà
collettive. Pericle dice tra l’altro: “Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari
quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici
affari per risolvere le sue questioni private”.
E ancora: “La nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno
straniero”.
“Lessi al mio pastore”, racconta Carlo, “la carta di Pericle e lui capì tutto, ma
aggiunse che per lui non era ancora arrivato il tempo.
Capii allora che dovevo continuare a vivere, non più per me, ma per potere stare
vicino a quel mondo emarginato dal ciclone della civiltà disumanizzata”.
Così Carlo, grazie alla fede, rappresentata in questo caso da Anna, e al recupero
di quei valori del mondo contadino, che da bambino gli erano stati trasmessi, ritrova
finalmente la serenità e lo voglia di lottare ancora per un mondo migliore.
NINO MOTTA
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RECENSIONE
DI ANNELLA PRISCO
(Scrittrice, operatrice culturale ed esperta della comunicazione e delle relazione
pubbliche)
Ancora un testo pregiato e di elevato interesse quello
appena pubblicato da Carmelo Aliberti, noto scrittore e
poeta siciliano nonché fondatore della prestigiosa rivista
“TERZO MILLENNIO” che raccoglie scritti e saggi
critici di illustri figure del panorama letterario
contemporaneo.
Titolo di questo suo nuovo romanzo “IL MIO
MONDO FINIRÀ CON TE”, un testo che può essere
considerato come il prosieguo della precedente
pubblicazione “BRICIOLE DI UN SOGNO”: anche
questa volta ci troviamo dinanzi ad una serie di aforismi e
brani in versi dello stesso autore, con frasi in dialetto
siciliano e stralci di pensiero tratti da brani di grandi scrittori della letteratura.
Nel romanzo si dipana anche una trama sentimentale, legata alla figura di Carlo,
protagonista della storia, originario di un paese del profondo Sud, e la cui vita si è
sempre basata su ideali di grande rispetto per il prossimo, fino all’incontro con Anna,
la donna di cui si innamora e che imprime una significativa svolta al suo percorso
esistenziale, ma che poi per un atroce destino gli viene prematuramente strappata
prima di poter coronare il loro sogno d’amore.
E poi l’incontro con Rosa, altra figura a cui Carlo sembra affidarsi per ricostruire
in qualche modo la sua vita.
Molto forte nel libro la componente del destino con tutte le sue sfaccettature,
l’attenzione al mondo degli immigrati, in particolare quelli protagonisti dei vari
sbarchi a Lampedusa, e poi tutta una serie di riflessioni sui guasti e le tante
contraddizioni della società di oggi, analizzati sempre con lucidità e con la presa di
coscienza di quanto il consumismo abbia soppiantato i veri valori dell’uomo.
Un romanzo insomma denso di contenuti, che coinvolge il lettore proprio per le
tante tematiche affrontate, e che esprime la piena maturità di pensiero raggiunta da
Carmelo Aliberti e la sua assoluta capacità di ergersi ad osservatore attento e critico
dei tanti problemi che sono sotto gli occhi di tutti oggi e che lui affronta con amaro
distacco, ma supportato sempre da un’adesione al mondo realistica e concreta.
ANNELLA PRISCO
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INDICE
3 PREMESSA DI FRANCESCO CONTI
5 TESTIMONIANZA CRITICA DEL PROF.RE GIUSEPPE RANDO
7 PREFAZIONE DI MARIA TORRE
9 INTRODUZIONE DI LUCIO ZANIBONI
13 NOTA CRITICA DI FRANCESCA ROMEO
16 ARTICOLO DI SEBASTIANO SAGLIMBENI
17 NOTA DI LETTURA DI NINO MOTTA
20 RECENSIONE DI ANNELLA PRISC

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Informazioni su Carmelo Aliberti

Carmelo Aliberti è nato nel 1943 a Bafia di Castroreale (Messina), dove risiede, dopo la breve parentesi del soggiorno a Trieste, e insegna Lettere nel Liceo delle Scienze Sociali di Castroreale. È cultore di letteratura italiana presso l’Università di Messina, nominato benemerito della scuola, della cultura e dell’arte dal Presidente della Repubblica. Vincitore di numerosi premi, ha pubblicato i seguenti volumi di poesia: Una spirale d’amore (1967); Una topografia (1968); Il giusto senso (1970); C’è una terra (1972); Teorema di poesia (1974);Tre antologie critiche di poesia contemporanea( 1974-1976). POETI A GRADARA(I..II), I POETI DEL PICENUM. Il limbo la vertigine (1980); Caro dolce poeta (1981, poemetto); Poesie d’amore (1984); Marchesana cara (1985); Aiamotomea (versione inglese del prof. Ennio Rao, Università North Carolina, U.S.A., 1986); Nei luoghi del tempo (1987); Elena suavis filia (1988); Caro dolce poeta (1991); Vincenzo Consolo, poeta della storia (1992); Le tue soavi sillabe (1999); Il pianto del poeta (con versione inglese di Ennio Rao, 2002). ITACA-ITAKA, tradotta in nove lingue. LETTERATURA SICILIANA CONTEMPORANEA vol.I,p.753, Pellegrini ,Cosenza 2008; L'ALTRA LETTERATURA SICILIANA CONTEMPORANEA( Ed.Scolasiche -Superiori e Univesità-) Inoltre, di critica letteraria: Come leggere Fontamara, di Ignazio Silone (1977-1989); Come leggere la Famiglia Ceravolo di Melo Freni (1988); Guida alla letteratura di Lucio Mastronardi (1986); Ignazio Silone (1990); Poeti dello Stretto (1991); Michele Prisco (1993); La narrativa di Michele Prisco (1994); Poeti a Castroreale - Poesie per il 2000 (1995); U Pasturatu (1995); Sul sentiero con Bartolo Cattafi (2000); Fulvio Tomizza e La frontiera dell’anima (2001); La narrativa di Carlo Sgorlon (2003). Testi, traduzioni e interviste a poeti, scrittori e critici contemporanei; Antologia di poeti siciliani (vol. 1º nel 2003 e vol. 2º nel 2004); La questione meridionale in letteratura. Dei saggi su: LA POESIA DI BARTOLO CATTAFI e LA NARRATIVA DI FULVIO TOMIZZA E LA FRONTIERA DELL'ANIMA sono recentemente uscite le nuove edizioni ampliate e approfondite, per cui si rimanda ai relativi articoli riportati in questa sede. E' presente in numerose antologie scolastiche e sue opere poetiche in francese, inglese, spagnolo, rumeno,greco, portoghese, in USA, in CANADA, in finlandese e in croato e in ungherese. Tra i Premi, Il Rhegium Julii-UNA VITA PER LA CULTURA, PREMIO INTERN. Per la Saggistica-IL CONVIVIO 2006. Per LA NARRATIVA DI CARLO SGORLON. PREMIO "LA PENNA D'ORO" del Rotary Club-Barcellona. IL Presidente della Repubblica lo ha insignito come BENEMERITO DELLA SCUOLA;DELL CULTURA E DELL?ARTE e il Consigkio del Ministri gli ha dato Il PREMIO DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO 3 VOLTE. E' CUlTORE DELLA MATERIA DI LETTERATURA ITALIANA. Il Premio MEDITERRANEO alla carriera. Il PREMIO AQUILA D'ORO,2019. Con il romanzo BRICIOLE DI UN SOGNO, edito dalla BastogiLibri di Roma gli è stato assegnato il Premio Terzomillennio-24live.it,2021 Sulla sua opera sono state scritte 6 monografie, una tesi di laurea e sono stati organizzati 9 Convegni sulla sua poesia in Italia e all'estero. Recentemente ha pubblicato saggi su Andrea Camilleri, Dacia Maraini,e rinnovati quelli su Sgorlon, Cattafi,Prisco,Mastronardi e Letteratura e Società Italianadal Secondo Ottocento ai nostri giorni in 6 volumi di 3250 pp. Cura la Rivista Internazionale di Letteratura TERZO MILLENNIO e allegati. Ha organizzato Premi Internazionali di alto livello,come Il RHODIS e il Premio RODI' MILICI-LOMGANE. premiando personalità internazionali che si sono distinte nei vari ambiti della cultura a livello mondiale

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