EMILIO ISGRÒ, BARCELLONESE, ARTISTA SUPREMO DELLA CANCELLATURA, GIGANTE NELLA SCULTURA, MAESTRO INSUPERABILE NELL’USO DEL PENNELLO E NELLA SBUCCIATURA DELLA PAROLA, OGGI COMPIE 85 ANNI.
AL GRANDE E CARO AMICO, PORGIAMO CON IL CUORE LA NOSTRA GRATITUDINE E L’AFFETTO DI CHI LO CONOSCE E LO STIMA.
CARMELO ALIBERTI
Emilio Isgrò, poeta, pittore, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore e regista, è nato a Barcellona di Sicilia nel 1937, ma dal 1956 vive e lavora a Milano, con una parentesi di sei anni a Venezia, dove ha curato le pagine culturali del Gazzettino, allora diretto dal messinese Giuseppe Longo. Intellettuale poliedrico, dissacratore ed eccentrico, oscillante in tutte le sue operazioni artistiche tra radiografia realistica degli eventi e deviazione nelle forme della parodia, ogni sua opera rappresenta un diverso capitolo dei drammi e delle distorsioni dell’Italia di oggi, di cui esplora euforie effimere, smagliature, malversazioni e insidie di categorie sociali e politiche furbesche che, sotto la maschera del perbenismo, coprono vizi, camaleontismi e follie di vario genere.
(a.c)
Una nuova poetica
Come poeta, esordì giovanissimo con Fiere del Sud (Schwarz, 1956), dove ancora la forza della parola è animata dalla memoria degli eventi quotidiani della sua prima giovinezza, osservati come oasi felice di conforto e di idealità e dotati di un linguaggio trasparente e originale, che già induceva il lettore a prefigurare nell’opera esordiente di Emilio sviluppi imprevedibili. Infatti, erano gli anni delle operazioni artistiche della Neoavanguardia, raccolte nella prima Antologia della poesia visiva curata da Lamberto Pignotti, dove la “poesia visiva” non risultava ancora definitivamente consacrata, ma appariva in dilemmatico rodaggio.
Con le raccolte Uomini e Donne (Sampietro, 1965) e L’età della ginnastica dell’anno successivo (1966), Emilio Isgrò appare coinvolto nel movimento delle operazioni sperimentali che dilaga nella nostra letteratura, spesso sottesa da valenze ideologiche contestatrici del sistema di potere alto-borghese. I poeti nuovi, in un clima di neocapitalismo e di alienante consumismo, volevano tracciare le linee di una rivoluzione che svuotasse di pregnanza contenutistica la parola, per impedire ad essa sia la possibilità di darsi un ordine logico-espressivo, tendente ad appiattire la mente, che di esprimere inutili messaggi di palingenesi o trasmettere subdole comunicazioni capaci di attutire ancora di più la spinta delle masse, febbrilmente affamate di edonismo, alla ragione. Si trattò di un esperimento non totalmente riuscito, come oggi la stessa critica riconosce unanimemente.
Ma a questa linea, inchiodata al foglio come strumento di contestazione globale, si affiancò in maniera originale Emilio Isgrò che, nel tentativo sia di reazione allo strapotere borghese, sia di salvare il ruolo propedeutico della poesia, si accorse che la parola “straniata” non poteva essere più lo strumento privilegiato dell’operazione poetica, ma doveva trasformarsi in evento estetico, in cui il segno verbale poteva coniugarsi con il segno iconico e creare così una poesia visiva, in cui il momentaneo equilibrio ritrovato fosse prefigurazione e bellezza. In effetti, il concetto, teorizzato particolarmente da Isgrò, divenne l’epicentro di una nuova poesia come arte generale del segno, con strutture estetiche in cui coesistevano cifre tratte da codici diversi. Così al segno verbale si affiancarono quello pittorico, il manifesto, le spezzettate parole del discorso e le lettere dell’alfabeto, caoticamente disposte sulla pagina bianca. Se prima i fili della cultura alto-borghese e di quella piccolo-borghese non erano totalmente interrotti, con il radicalismo libero dell’opera di Isgrò (soprattutto con L’età della ginnastica, che rifiutava il “collage” di altre 168linee avanguardistiche, in quanto si rivelava forte ancora la capacità di trasmettere messaggi) la rivoluzione della poesia visiva non era più una arbitraria incongruità, ma si imponeva come lo scatenarsi di ogni potenzialità di comunicazione e, senza rinnegare il valore dell’arte, proponeva uno strumento divulgativo di nuovo conio, carico di molteplici ipotesi di lettura.
Il dibattito su tale motivo fu intenso, ma il poeta di Barcellona impose la sua poetica come la più rispondente, nella sua globalità, alla richiesta sociologica e artisticamente rivoluzionaria del tempo.
Così il suo nome passò alla storia letteraria con l’etichetta della creazione poetica scandita dalla tecnica della “cancellatura” e sostanziata del potere effrattivo della “visività” di lessemi selezionati e più idonei alla immediata trasmissione di messaggi. Ciò rappresenta il risultato di una mentalità naturalmente anarcoide, ma anche un progetto ideologico di saldatura comunicativa di rapporti tra oppressori e oppressi.
Nelle altre opere, sia in quelle teatrali, scritte in versi, come L’Orestea di Gibellina (Feltrinelli 1983-85), sia nei suoi romanzi, quali Marta de Rogatis, (Feltrinelli, 1987), Polifemo (Mondadori, 1989), L’asta delle ceneri (Camunia 1994), sia nella raccolta di versi Oratorio di ladri (1998), Isgrò non si allontana da questo suo teorema di impasto storico-semantico-linguistico e, se attorno al tema centrale sviluppa quello prevalente di un’operazione dissacratoria dei formalismi codificati della civiltà di massa, tutte le sue opere abbondano di tanti ingredienti culturali, popolari, giullareschi, drammatici, ironici e tragici, con un’operazione circolare di strutture, di contenuti e di linguaggi che fanno di ogni opera un microcosmo inventivo.
Tra pittura e letteratura
Accanto all’opera letteraria, Isgrò sviluppa anche l’arte pittorica e dà vita a mostre, come quella ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo o la precedente grande esposizione all’Università di Parma nel 1975, che hanno riscosso un plebiscitario consenso, collocando l’artista tra i maggiori maestri della pittura contemporanea. Isgrò mira a potenziare la parola e l’immagine attraverso il loro contrasto, per cui egli parte dallo studio del significato dei segni per imprimervi finalità poetiche.
Sul piano tematico, emblematica è Jaqueline, uno dei capolavori artistici, che rappresenta il tema dell’assenza e del silenzio, che Isgrò concepisce in maniera radicalmente opposta rispetto ai concettualisti. Infatti, mentre questi sembrano rassegnati all’impossibilità di comunicare, Isgrò suggerisce di scoprire, nel dramma della comunicazione negata, la necessità della comunicazione come un fattore irrinunciabile per l’artista.
Anche lui, intellettuale della diaspora, custodisce nel cuore sempre la sua Sicilia, particolarmente la sua Barcellona, dove frequenti sono le sue discese, quasi a voler riossigenarsi per poter ridonare i valori che la sua terra gli ha impresso nell’anima. Così, ha voluto impiantare, nella piazza della stazione vecchia, un gigantesco seme dorato che, con la sua punta affilata rivolta verso l’alto, sembra invocare il cielo, simbolo del seme dell’arte, della vita, di tutto ciò che di positivo è esistito o potrà nascere nella sua terra natale.
Tale segno storicamente simboleggia l’attività tradizionale degli “spiritara” locali, che a Barcellona hanno creato la ricchezza e il benessere economico della città; su scala siciliana esprime, oltre che l’operosità della gente di Sicilia, anche il simbolo sublime e incommensurabile della vita stessa che si sviluppa, matura, perisce ed eternamente si rinnova sotto il calore dorato del Sole, espressione del grande Artefice dell’universo.
Sono racchiusi in questo seme storia e leggenda, gioia e dolore, vita e sogno, arte e mito, insomma la memoria globale di una terra, di cui Isgrò anela la rinascita sotto la luce dell’Arte e della cultura. In tal senso, la conclusione è scontata: oggi, in quest’epoca di imprevedibili cambiamenti in cui l’uomo ha stravolto la propria identità, solo l’Arte può far rinascere l’Essere, esaltare quel piacere di vivere che è piacere creativo. Nel romanzo L’asta delle ceneri, in un’Italia sfasciata e corrotta, conflitti leghisti e superiori interessi, assistenzialismo siciliano e neocapitalismo lombardo, formazione e informazione, malignità grottesche e false tragedie traspaiono dalla rivelazione di un Gesù reincarnato in incognito, accanto a un sociologo esperto di erari e di modernità, a un senatore e a un commerciante messinese che scoprono di avere un malavitoso, donne e mogli in comune, e conferiscono al romanzo un’atmosfera esilarante e al tempo stesso inquietante. Il viaggio in un’Italia torpida e lacerata coglie il disorientamento di una stagione cupa e decadente, in cui la storia italiana non riesce a liberarsi dalle tentazioni di meschinità, disonestà e di squallore che scandiscono le vicende della vita intristite nel buio della ragione. Le pagine risultano disseminate di situazioni paradossali, di incisi provocatori e di risposte audaci che implicano soluzioni beffarde, attraverso cui dispiega il volo un assoluto bisogno di libertà totale dello scrittore, che estende l’avventura creativa fino alla discesa psicologica, alla circoncisione sociologica e alla degenerazione in atteggiamenti bizzarri, come quello di Feminò Zammara che si reca in Chiesa ad invocare santi declassati a mediocri comparse, privi del tradizionale potere miracolistico e faticosamente impegnati in azioni normali. L’io narrante (l’alter ego di Isgrò) opera perforazioni nel guscio delle finzioni o nelle superfici del reale, sempre pronto all’ascolto, pur nei molteplici travestimenti in fiammifero, biscotto, orologio a cucù, in un raggomitolarsi esplosivo di intrecci in cui alla fine trionfa la cifra surreale della beffa. L’ordinarietà fattuale si carica di timbri burleschi e di eroi comici rabelaesiani e la cronaca accorda i segmenti della vita e della natura con le vibrazioni della magia e della favola. In tale contesto, si inseriscono personaggi come il pittore De Angelis, “grande specialista dello schiaffo”; il Buonarroti, “seduto nel suo sarcofago in Santa Croce”; l’imperatore del Cipango, ex ballerino e attore, intento a “mettere il freno a Dio”; Galilei, vigilante sull’universo con i fili della sua barba; Daniele Berchet, convinto sostenitore che i Siciliani sono in guerra tra loro anche per una cassa da morto. Scorre un caleidoscopio di stravaganza che l’io coglie sia tra i vivi che tra le ombre, dove si susseguono personaggi ambigui e vicende divaganti e divertenti. In tale registro si muovono anche i protagonisti del romanzo Polifemo, tra il reale, il comico, l’aristofanesco e il grottesco. Polifemo Zammara è l’eroe, o antieroe, di questo moderno “romanzo comico”, che si oppone al suo antagonista Ulisse. Isgrò vede nella figura di Ulisse l’esponente più alto della civiltà: egli, l’astuto, è visto come un “pretore di legno”, un “giudice bisbetico”, “un fantasma enciclopedico”. Il romanzo si colloca in un infinito presente, quasi a voler cancellare ogni prospettiva di crescita.
Col suo “occhio televisivo”, Polifemo è in grado di riscattare figure come Reagan e Gorbaciov, Eugenio da Messina e Madame Bovary, in una Sicilia planetaria in cui gli spettri del passato sembrano meno ingombranti dei fantasmi del futuro. Un alto vigore inventivo, che ricorda l’ultimo Palazzeschi, fa proliferare continuamente una serie innumerevole di episodi, scene e battute, attraverso cui lo squallore del presente viene indagato con l’occhio ironico e disincantato di un emblematico protagonista, attualizzato, del mito.
Frequenti richiami tra realtà e mito caratterizzano particolarmente le opere letterarie di Isgrò, come nell’Orestea di Gibellina, che ricorda il titolo della trilogia intera di Eschilo, con l’assassinio di Agamennone per opera di Clitennestra. Ai personaggi e agli intrecci tradizionali, l’autore aggiunge altri personaggi (come il Carrettiere e l’Arciprete), che imprimono all’opera una valenza emblematica di notevole attualità. Composta per metà in italiano e metà in siciliano, lo scrittore trasforma la tragedia in un sogno, e il grande conflitto tra Agamennone e Clitennestra risulta come una conturbante epopea consumata nella società contemporanea.
Il testo, perciò, nella consapevolezza della impossibile riproposizione del mito greco, nella originaria versione, punta alla rappresentazione di una storia di terremoti (e Gibellina fu l’epicentro del terremoto del 1968 nella Valle del Belice, in Sicilia), di esilio e di tradimento che ripropone in termini nuovi la tragedia antica, vista con l’ottica della sicilianità attuale.
Con L’oratorio dei ladri, Isgrò ritorna alla sua primordiale vocazione alla poesia pura. Tuttavia, non si tratta di un recupero tecnico, ma sullo spazio poetico egli riesce ad assorbire altre esperienze del suo percorso creativo, in particolare il teatro. Nel poemetto di apertura, Gibella del Martirio, il poeta ricorda i quindici anni trascorsi dopo il terremoto del Belice.
È un poemetto originale che, al di là della oralità, si presta anche alla rappresentazione scenica. Il componimento si incentra su una figura femminile fisionomicamente mutante, che si muove e recita tra disastro e creazione, spinta a credere alla rinascita della vita nella terra sconvolta dal terremoto.
Notevole la conclusione, in sintonia con l’intera opera di Emilio Isgrò, di un presente che tende a seppellire l’arte: con i suoi strumenti di bellezza e di denuncia, l’autore esprime una reazione, quasi biologica, che riafferma il primato assoluto della poesia e la lodevole arte del “puparo”, incarnazione emblematica dell’attività del poeta.
Ultimamente è uscito, di Isgrò, Brindisi all’amico infame. Si evidenzia qui un Isgrò ancora sorprendente e rivoluzionario. Egli che, ai tempi del Gruppo ’63, s’è inventata, nell’alveo dello sperimentalismo, una via sua mediante un crogiolo di parole tratte dalla stampa quotidiana e collegate in maniera apparentemente senza senso, come gli anni confusi della contestazione giovanile, con questo nuovo libro sorprende ancora, non solo in senso tecnico-metrico-stilistico, ma anche nell’uso di uno strumento espressivo ancora autonomo e innovativo, testimonianza di una poesia simmetrica alla post-modernità. Come dice la scheda editoriale, sono “tre poemetti” dove Emilio Isgrò, giocatore di parole e di metafore, mette in scena storie di una terra, la Sicilia, troppo addolorata per essere sincera, e dove anche la commedia degenera in tragedia”.
Fantasiosa e parodica, drammatica e ironica, la poesia di Isgrò orchestra memorie senza elegie di una infanzia edenica, diventata a poco a poco apprendistato luttuoso della vita. Per cui si può affermare che il brindisi si trasforma in requiem e il requiem in brindisi.
L’INVENTORE DI FALSE NOTIZIE
Emilio Isgrò, in questo brano tratto da Polifemo, semina il dubbio su tradizionali verità storiche e reinventa, con sigla personale, comportamenti e caratteristiche di personaggi mitologici incorniciandoli in una inedita visione moderna. Egli trasforma Polifemo e Ulisse in eroi-antieroi di un moderno romanzo comico, collocandosi in un eterno presente, dove gli eventi più salienti del passato vengono messi in discussione o riproposti in maniera capovolta. Come aveva rivoluzionato l’“ars poetica”, prima dei “Novissimi”, del Gruppo ’63. Come dà vita ad un nuovo modello di “poesia visiva”, così Isgrò applica al romanzo un’operazione di rovesciamento dubbioso, come avviene nel passo riportato del capitolo V.
Luogo d’origine della lingua greca sarebbe il territorio di Milazzo e solo successivamente sarebbe giunta in Grecia, con qualche modifica ortografica e non sintattica, per il primato imperiale ateniese che, con l’egemonia delle armi, ha trascinato con sé anche il linguaggio.
Si nota in questo brano anche il capovolgimento di una antica certezza storica: Ulisse ora non è più l’astuto eroe dell’intelligenza e con il rovesciamento delle parti diventa l’uomo comune, che non riesce a sigillare il dubbio con le sue proverbiali invenzioni. Polifemo emerge, invece, nelle sue poche osservazioni, come il vero campione del razionalismo, nel riconoscimento della propria ignoranza ma anche nell’osservare che i ciclopi, pur essendo ciechi, sono riusciti a rinunciare alla violenza, ad assumere comportamenti umani e a coltivare gli ingredienti che irrobustiscono un carattere simile a quello degli uomini.
I PRIMI ABITANTI DELLA GRECIA
(da Polifemo, Milano, Mondadori, 1989)
Nel testo
Nella breve pagina riportata, Isgrò incentra la sua analisi sulle “passeggiate” degli antichi Greci lungo l’Isola per uno o più millenni, asserendo addirittura che anche Dedalo, con le sue ali di cera, era approdato a Punta Raisi in una data e in un’ora precise, subendo qualche danno, attribuito dallo scrittore, con un anacronismo temporale-tecnologico, a quel “motore in fiamme”, carico di allusioni beffarde. Le credenze mitiche si mescolano con comportamenti normali, in quelle forme di commistione tra fiabesco e realtà storica tipiche dello scrittore di Barcellona.
Improvvisamente, nello scorrere dei secoli, fiorivano, ad opera dei nuovi invasori, le più belle città a ciascuna delle quali Isgrò attribuisce connotazioni semplici, come “Catania la ladra dell’Etna” o Siracusa “la pietra più dura”, mentre le popolazioni autoctone erano costrette a rifugiarsi nelle spelonche, a causa dei colonizzatori, che da greci si andavano trasformando in sicelioti. Anche in questo passo di “Polifemo”, lo scrittore racchiude in poche righe un “reportage” immaginario, che si sviluppa con assoluta libertà fantastica.
SULLE MACERIE DI GIBELLINA
(da L’Orestea di Gibellina) Feltrinelli, 1985
Carrettiere Zotta in Sicilia significa frusta. Ed è con questa frusta che si chiama zotta che pungo la cavalla quando annotta su Madonie, Peloritani e Nebrodi. È con questo nerbo che la spingo.
Ma non la freno né la tengo a bada: e tremo, tremo, se alza la cresta dalla sua biada lungo le pianure o sopra le voragini. Non scalciare, Pensiero, fermati, fermati, destriero, dentro le vertigini! Inchiodati, carretto! Non superare gli argini che restano sul ciglio dell’abisso. La lanterna si è spenta in questa notte eterna. Come sono ferito, sfracellato al viso! E l’occipite che canta contro il sasso a punta. Ahi la mia povera testa! Ah Cassandra! Cassandra Giumenta maledetta.
Nel testo
II carrettiere – personaggio nuovo, assente nell’antica tragedia eschilea – viaggia nella notte sopra il suo carro tirato da Cassandra, la giumenta dagli occhi d’oro, “micciusi”, come dicono in provincia di Messina. Qualcuno che non si vede (o lo stesso Carrettiere, che ancora si vede poco) fischietta una malinconica aria degli anni Venti. Canta a bocca chiusa un motivo che tutti cantano nel Millenovecentoquarantatrè: quando in Sicilia finisce la guerra. Una tristissima nenia. Un lamento ripreso e subito abbandonato da un coro di bocche invisibili e chiuse. Il Carrettiere non sarà sempre e soltanto il Carrettiere.
Se necessario, potrà riassumere in sé altri personaggi, il Popolo o parti di esso. E niente potrà impedire che egli sogni qua e là di essere Clitennestra, Agamennone o Cassandra, e per un tempo quasi impercettibile li sostituisca o tenti di sostituirli.
GIBELLA
(da Oratorio dei ladri, 1998)
Sono venuta a leggere questo piombo. A domandarti, o piombo, se con te finisce, se da te incomincia. Spagna o Francia basta che se magna. Voglio una casa, un chicco, una gallina, una perla per la notte di gennaio. Dormo poco la notte perché più non spero che mi porterai domani quello che mi merito. Ti promisi amore, gratitudine: oggi sbatto la campagna sull’incudine e la testa. Mai sappia la sinistra quel che fa la destra al centro del mio centro. Mai sappia l’estate quel che fa l’inverno al monte: nessuna stella conosce il cammino, le impronte delle altre stelle. Fosse il mio nome Solitudine o Gibella nell’afflizione eterna io cercherei nel fondo della morte nel suo buco pace per questo tiglio (meschino, meschino…) e queste nuore a lutto. Vi chiamerò, povere sorelle di clausura e nuore, prima che si fermi il mondo: e voi prendete le giacche e le giacchette, i gomitoli e gli aghi e il punto a giorno: e non dimenticate i miei occhiali che più non ci vedo in questa valle.
NEL TESTO
Con Oratorio dei ladri, Isgrò riprende i fili della sua prima vocazione e si impone per la pienezza energica del linguaggio, per i contorni netti delle sue figure, per la vitalità comunicativa, ma anche per la capacità che dimostra di aver saputo assorbire, e talvolta anticipare, altre esperienze del suo percorso articolato, e in primo luogo il teatro. Esemplare, in questo senso, il testo di apertura Gibella del Martirio, scritto nel quindicesimo anniversario del terremoto del Belice.
È un poemetto che ha una felicissima consistenza sulla pagina, ma che invita ad oltrepassarla nei suoi rimandi all’oralità, ad una dimensione scenica, alla recitazione. Si impernia su un personaggio tra rovina e creazione, che si volge al rinascere della vita, in una spinta irrinunciabile anche dopo il terremoto. Isgrò è profondamente radicato nella sua terra e nelle sue origini, ed Oratorio dei ladri lo conferma.
Ma queste origini sono una centralità che non si placa e non si appaga di se stessa, che è al contrario dirompente ed aperta, che è al tempo stesso mito e futuro. Per questo Isgrò va dalla tradizione del dialetto all’invettiva contro un presente che avvilisce l’arte o tenta di seppellirla, opponendo una reazione biologica, facendosi grande “puparo” e riaffermandosi poeta.