CARMELO ALIBERTI—- NINO PINO —ANTONIO SAITTA
TRE POETI MESSINESI DEL NOVECENTO
CARO DOLCE POETA
di Carmelo Aliberti
a cura di LUCIO ZANIBONI
(Il poemetto è stato tradotto in 17 lingue)
Venerdì Santo, il primo pensiero va alla sofferenza di Cristo in Croce. Una riflessione doverosa poi su quanto avviene e non corrisponde al suo dettato d’amore e di pace. Ecco la guerra in Ucraina con lo strazio di un popolo martoriato dalle bombe. Ancora prevaricazione, Cristo è in Croce e con lui tutti i sofferenti sulla terra, gli oppressi, gli umiliati, coloro che muoiono di fame, i bimbi con il ventre gonfio d’aria, scarni, quasi scavati nelle altri parti del corpo, morenti…Un Golgota senza fine su una terra che ha perduto la rotta e procede verso l’estinzione. Quasi senza accorgermene apro lo Smartphone e mi appare “Caro Dolce Poeta”, poemetto di Carmelo Aliberti che vanta l’introduzione di Michele Prisco e la traduzione in diciassette lingue. È in perfetta sintonia con il Golgota. È il grido di dolore del poeta di fronte allo sfacelo cui assiste. Sfilano gli esodi dal sud al nord, in un miraggio di nuova vita e al sole e al mare, alla distesa infinita del verde, allo splendore degli ori dei limoni e delle arance, ecco succedere lo squallore di una vita relegata alle catene di montaggio, quasi come dei rematori di galee, per una misera mercede, malsufficiente a coprire le necessità della famiglia, ad assicurare un pane fino a fine mese con umiliazioni, discriminazione e sottomissione a predatori tesi a aumentare il capitale, mai sazi e contenti del loro stato sociale.A poco a poco anche il popolo del sud, così come quello del nord, a sua volta schiavo del sistema, ha migliorato le condizioni generali di vita e i figli hanno avuto maggiori possibilità. Ma i giorni, decadendo i costumi, sono divenuti “mostri” e si sono “infiammati di odio e di viltà”. “L’idillio della libertà”, successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale e alla caduta del Fascismo, “si è smorzato tra i dissidi di Opulenza e Amore” in una terra “rossa con le sue ferite”. L’odierna civiltà ha inseguito “malefici feticci” e disumana è la voce del poeta, ora sommessa denuncia che “Cristo è morto, è morto sui tralicci del sogno e dell’assurdo” ora si fa urlo contro l’avida mano, mai sazia nell’intascare denaro, e diviene corale a innalzare “sul Golgota del cuore la croce dei peccati collettivi”. Scrive Michele Prisco: “Ogni parola ha sempre le sue origini nella sostanza umana e il canto si realizza come passione, sofferenza, denunzia, realtà interiore e anelito di liberazione, recupero di smarriti modi di vita…”. Proprio questo è lo scopo precipuo del poeta e della poesia e Carmelo Aliberti interpreta appieno il suo ruolo: essere voce intesa a individuare la strada da seguire e ricordarlo nel giorno in cui Cristo si è immolato per noi sulla Croce è aderenza piena alla missione letteraria e salvifica del poeta che, nella sua vita, ha mirato sempre al progresso morale e sociale umano. Aliberti è poeta sempre coerente all’assunto e il suo canto si fa linfa per tutti noi, linfa generatrice di etica e di resurrezione. È inoltre un inno d’amore per la terra che gli ha dato i natali e da cui ha attinto il sole della sua lirica.
Lucio Zaniboni
NINO PINO BALOTTA
a cura di Aldo Gerbino
NINO PINO
Nino Pino (Antonino Pino Balotta), nato a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1910, subì negli anni giovanili il carcere per quel suo appartenere al Movimento Anarchico Liberatorio. Un suo testo del 1935, Tifo sportivo e suoi effetti fu sequestrato dal Minculpop. Subì la stessa sorte l’anno in cui – si era nel 1948 – fu eletto deputato al Parlamento Nazionale come indipendente di sinistra. Professore di Zootecnia generale nell’Ateneo messinese fonda, nel 1958, la rivista “Zootecnia e Vita” inserendosi nel circuito scientifico nazionale e internazionale. Sin da giovane coltiva la poesia in dialetto e in lingua ottenendo nel 1956 il premio ‘Viareggio’ con la raccolta Mminuzzàgghi (1956). Nel 1970 dà alle stampe Voga voga marinaru (1970). In lingua pubblica: Sciami di sparse parole (1939), Altalene (1951), Moli protesi (1966); è anche autore di teatro: U tamburu (1976) e di saggi critici: Sul dialetto siciliano (1955), Tre profili (1963), Amori di Sicilia (1979). Poesia della contraddizione, espressa sul versante politico e poi sulla parola in senso lato, intende cogliere l’intima e assorta materia del pensiero. Muore a Barcellona P.G. nel.1987,durante una bollente estate d’agosto.
1. Notti nivusa
La neve distesa come fredda coltre brilla nell’incanto della luce lunare. Il vento gelido trascina via nuvole e ghiaccio: esse spengono quella lanterna luminosa posta nella volta celeste, mentre l’albero appesantito sembra cullare il murmure di un pianto.
Murmuriàndu nto menzu ’a nuttàta
Si jàzza ’u ventu, friddusu, ogni tantu,
E spinci p’u celu, ’a nuvulata,
A cummugghiàri ’a luna cu so mantu.
Caminandu p’u celu, nfriddata,
’U lluminàva ’a luna, tuttu quantu;
Ccà tutta spicchijàva pigghiàta
’A nivi n’chinu ’i ddu lustru di ncantu.
Ma nchianàndu, ora, ’a negghia ha mmucciàta
’A luna janca, cu lustru di ncantu;
Nto scuru strallùci ’a nivicàta,
L’àbbiru nnaca c’un mùrmuru ’j chiantu.
2. U ciaramiddaru
È il suono della cornamusa che segna il fluire del tempo. L’immagine è sempre la stessa: il suonatore di ciaramella si snoda tra vicoli col suo codazzo di bimbi; sale e scende sull’acciottolato e soffia e gonfia e arpeggia mentre gli anni cadenzano il ritmo del suo passo e dell’esistenza tutta.
“Nneru nneru lu ciaramiddaru
Quattru e cincu a lu pagghiaru
Lu pagghiaru è picciriddu
Non ci capi nuddu ariddu…”
(Da una cantilena pastorale)
U ciaramiddaru camina camina
mpunta sunannu vinedda vinedda –
i carusi cuda appressu -mpuzza çiùscia e sona –
i carusi rranti rranti –
nchiana e scinni ggiacatu ggiacatu
vùscia e sdùscia
çiùscia e vùscia e frasculìa supra i canni a so litania
– i carusi o tornu o tornu –
L’anni pàssanu ciaramiddaru
un annu cull’otru camina camina…
*[da Aldo Gerbino, Sicilia poesia dei mille anni, Inventario dal ‘pozzo dorico’, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2001]
Nino Pino (Barcellona P.G. [ME] 1909 – ivi 1987) pubblica il primo volume di versi, Sciami di sparse parole (Quaderni di Poesia, MI) nel 1940 e, come sappiamo dalla sottotitolazione di alcuni testi con il termine “fotopoesia”, che deriva dalla poetica dell’ “aeropoesia” del futurismo della “terza serie” il cui manifesto è del 1931, la sua adesione al movimento di Marinetti è tardiva e risale alla collaborazione con la rivista romana Nuovo futurismo, degli anni 1933-35. Vincenzo Santangelo (in Nino Pino futurista, Vittorietti, PA, 1980) sostiene che la sua adesione al futurismo non fu “spontaneistica, ma una meditata scelta” per motivi di svecchiamento e di innovazione letteraria. Ma se di meditata scelta si può parlare per l’adesione ai codici futuristi di Vann’Antò, non altrettanto si può fare per Pino. Per Pino la scelta fu spontanea e istintiva, essendo una conseguenza naturale della sua costituzione psicologica. La spinta alla ribellione del suo temperamento psichico gli ha fatto rintracciare, nella cultura del proprio tempo, tutti quei mezzi “tecnici” e quei modelli che più s’adattavano ai propri scopi, come ha ben visto Giacinto Spagnoletti: “Senza mai costituire un alibi, il Futurismo non fu per lui una semplice cooptazione letteraria, ma al contrario una scelta molto responsabile verso un movimento […] libertario e anticonservatore”. Pino d’altronde aveva per così dire a portata di mano, nel proprio habitat vitale, il “nutrimento” culturale di cui si servì, a cominciare dallo stesso Vann’Antò. Basta rinviare alle approfondite analisi di Giuseppe Miligi per sapere quale fosse quell’habitat (nel settembre del ‘13 Marinetti era piombato a Messina col suo stato maggiore – Cangiullo, Mazza, Settimelli, Corra, Jannelli e Rino – per recitare al Mastroieni la commedia Elettricità, subito dopo la prima di Palermo; Francesco Carrozza aveva addirittura costituito dei “Fasci Futuristi” e poi con Jannelli e Nicastro a Messina, e nel paese natale con Vasari, a S.Lucia del Mela, aveva dato vita a un acceso cenacolo: cfr. Gli anni messinesi di Giorgio La Pira, All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller, MI, 1980, pp. 26-27). E per ammissione dello stesso Pino, sappiamo d’altronde che aveva assistito alle abbuffate di pesce fritto e vino jotalino che la “comarca” futurista faceva di frequente a Terme di Castroreale. All’istintivo approdo iniziale al futurismo, Pino fa comunque seguire la presa di coscienza critica, in base al discrimine della perdita di capacità eversivo-svecchiatrice del movimento. Come afferma nell’intervista a Francis Gastambide: “Giovane mi sono appassionato al Movimento Futurista […] ed ho goduto della immerita considerazione di Filippo Tommasi Marinetti. […] Ma quando poi si è ‘istituzionalizzato’ e si è anch’esso congelato in formule e schemi, quando […] è divenuto ‘fascismo’ e ‘marinettismo’, l’ho criticato” (Nino Pino: l’homme l’ouvre et l’universalité de l’Amour, Paris, S. Germain-des-Pres, 1972, p. 328). Di “distacco critico” parla anche Claudia Salaris, che riporta i testi Aviere e Fiera di luglio (Sicilia futurista, Sellerio, PA, 1986, pp. 39/40). Nella raccolta del ’40, la prima libertà metrica si nota in Sinfonia delle quattro stagioni, ma è solo con il ricorso ai grafismi (come in Aviere: “Libel / lu / la // ronzante”) e alle “parole in libertà” (come in Momenti in auto: “Ondeggiare tentennare rumoroso la macchi- / na cocciuta persiste ha febbre / febbre e va”) che si entra nel vivo del ribellismo metrico-sintattico. E il furore lirico-emotivo di Pino trova poi il suo più inconfondibile spazio espressivo quando si basa sulla ricerca fonica. Si va dall’onomatopea (“Rrrooommm zig zag baleno di qua di là / trrrooommm” in Aviere) alla ripetizione (“Gorgheggi gorgheggi stillano stillano” in Usignolo notturno), all’uso di rime e assonanze che hanno tutte la funzione – come diceva il Brunetière – di “suscitare delle emozioni musicali”. Tali caratteristiche tecnico-stilistiche scompariranno nelle successive raccolte in lingua (Altalene, Collana di Misura, BG, 1951; L’epopea di Gagarin, Sabatelli, GE-SV, 1963; Moli protesi, Edikon, MI, 1966).La discesa alle scaturigini della lingua della comunità dei propri antenati potrà avvenire solo mediante il dialetto. Anzi il vernacolo della piana di Milazzo latu sensu (in cui rientra Barcellona); non già il dialetto ingentilito e letterariamente anodino, in quanto portato delle classi borghesi e mediatrici fra aristocrazia e popolo, che nella storia isolana viene a coincidere con la tradizione “canonizzata” da Antonio Veneziano e perseguita fino a Giovanni Meli. In questa particolare parlata locale Pino pubblicherà, nel 1956, la raccolta di liriche Mminuzzàgghi, preceduta da un agguerrito saggio sul dialetto siciliano, cui nello stesso anno venne assegnato il Premio Viareggio (Trinacria) per il dialetto. Lo scarto vero e proprio a favore della parlata locale si ha attraverso la mancata assimilazione delle doppie consonanti nd e mb in nn e mm (es. ndi = nni; nchianandu = salendo). Essi si fanno più personalistici nelle scelte lessicali (es. àbbiru, rummicari per “rosicchiare”) e sul piano semantico del lessico (es. sbariàta = assorta per Pino, mentre i dizionari registrano “svariarsi, rasserenarsi”). A suo tempo, una breve indagine nella zona di riferimento aveva portato alla conclusione che spesso i parlanti non capivano il senso di certi termini. Secondo Aurelio Rigoli “si tratta di parole di un tempo, le uniche atte a darci le immagini di un tempo, quelle che Nino Pino sa ancora cogliere nelle sue sillogi” (Zootecnia e Vita, Univ. Messina, n° 2 dell’apr.-giugno 1971, p. 23). Anche se non si può non rilevare che, se la “parlata locale” doveva avvicinare il “popolo dei fratelli”, con l’impiego di termini desueti si perde invece il contatto dei significanti con i destinatari d’elezione. Si fa cioè elitaria. Questo limite non esiste nei testi di Voga voga marinaru, la raccolta più riuscita di Pino. Per quanto riguarda la successiva opera, U tamburu, è una “trasposizione culturale” in uno “spirito diverso” – come dice lo stesso autore – del Nô giapponese Il tamburo di panno di Zeami Motokijo, commissionatogli dal regista e critico Rocco Familiari, che ne curò poi un allestimento scenico nel gennaio 1976. Si può affermare conclusivamente che i due versanti della poesia di Pino, quello del futurismo e quello vernacolare, obbediscono alla stessa esigenza espressiva di fondo: attestare l’interna onda emotiva in maniera innovativa e svecchiatrice, cercando di attingere per quanto possibile le scaturigini di quel “popolo dei fratelli” a cui aspirava, dopo il rifiuto del mondo dei “padri”, ormai vincolato a valori stantii e inverati solo a parole. Assunto in parte realizzato e conforme a quella che era la sua Weltanschauung, come ebbe modo peraltro di mettere in luce nel resto della sua opera saggistico-filosofica.
ANTONIO SAITTA
Antonio Saitta, nato a Messina nel 1903 fu quel poeta-libraio motore – come ricorda Miligi – della vita intellettuale messinese. Da ragazzo, garzone nella libreria Ferrara, la prima costituitasi dopo lo spaventoso terremoto, entra in contatto con eterogenei intellettuali: da La Pira a Jannelli, da Longo a Migneco a Pugliatti. La sua libreria, l’OSPE, accoglie nel retrobottega la galleria d’arte “Il Fondaco”, luogo di incontro del gruppo omonimo e dei componenti dell’Accademia della Scocca. Con la sigla de “Il Fondaco”, con la collana “Il Vascello” e i “Quaderni di letteratura e arte”, contribuisce all’attività culturale della sua città. Antonio Saitta è poeta dalle emozioni sottili, di un dire pacato che articola “versi in cui gli aspetti più modesti del vivere trovano il loro accento più originale (e il Saitta che rifugge dalla declamazione come da ogni ricercatezza o preziosità) “; e “versi che prediligono le sottili sfumature del sentimento, i colori tenui e le recondite armonie del cuore” (G. Cavarra). La sua opera dialettale ha inizio con ’U ciauru da casa (1954), poi: Prima mi codda ’u suli (1956), O suli o ventu (1960), ’A cantata ’i tutti l’uri (1967), ’U cottu (1975). In lingua: La terra aspetta (1959), La catena sospesa nel tempo (1964), La Pasqua delle genti (1967), Il cuore assurdo (1972), Anatema d’una maschera (1977), La vita in un letto di tenebre (1976), E più mi faccio legno (1976), Mare senza rive (1980), Tempo anima (1984). Dell’intensa attività storico-saggistica ricordiamo: Messina artistica (1963), Messina antispagnola (1974), Nell’incontro di Morgana (1980), Donne di Messina (1982). Una vocazione poetica – quella di Saitta – “scattata improvvisa al tocco dei suoi verdissimi cinquantanni”, ma intensissima. Uomo mite vive la poesia come una dimensione religiosa, essenziale, d’una non esasperata densità, dove oggetti, angoli amati e riconoscibili della casa, della memoria, assumono un odore particolare, acquistano un senso arcano, quasi in un postcrepuscolarismo sfrondato dalla carica di orpelli e stretto nella morsa della sostanza mitica, per poi aprirsi in una improvvisa essenza metafisica. Muore nella sua amata Messina: è l’agosto del 1987.
’U ciàuru d’a casa
Accattivante e intenso è il profumo della propria casa. Appena tornato dal lavoro ecco il tempio nella sua grandezza e nel suo mistero: moglie, figli come angeli dormienti. Ed è questo mistero che infonde d’improvviso tanta incomprensibile paura.
Dilicatu comu ’u suspiru,
putenti cchiù d’u prufumu
di tutti i ciuri
d’u munnu sanu,
è ’u ciàuru d’a casa.
Ciàuru spiciali
c’u senti l’omu
quannu tonna d’u travagghiu,
vaddannu mugghieri e figghi.
’A sira
dopu ’a festa d’u manciari,
dommunu i figghioli
ccu l’ali o pettu:
pari c’unu è ’n chesa
ccu l’anciuli.
Tannu mi scantu.
2. ’A cira squagghia
Giorno e notte. Luce e buio. L’uomo si sfianca nel lavoro quotidiano. E a furia di ‘accedere’ e ‘spegnere’, la vita si scioglie come cera.
L’omu s’ammazza a travagghiari
e l’ura non vidi
mi bbrisci e mi scura:
a furia di dduma e stuta
’a cira squagghia.