Barcellona P.G. 8-4-2022
Caro Carmelo,
ho apprezzato moltissimo la tua lettera di condoglianze profondamente sentita. Lotto con tutte le mie forze per sopravvivere a tanto dolore e per dare coraggio ai miei cari soprattutto ai miei nipoti e a mio marito. Con la mia Mirellina se n’è andata una parte di me. Ho fede. So che ci incontreremo tra non molto in un mondo più sereno di quello terreno. Eppure mi rimane ancora un’altra grande speranza , che mi fa vivere: è la scrittura, che mi sorregge sempre. T’invio un gruppo di mie poesie dedicate a mia figlia bambina, adolescente e adulta ed altre ispirate a vari temi. Allego anche una favola della mia Mirellina pubblicata su Pupattola e intitolata “ La famiglia felice “. Scegli tu le poesie che ti sembrano più riuscite e pubblicale gentilmente su “Terzo Millennio” per onorare la memoria di mia figlia Mirella Maria Caterina Parisi. T’invierò per tale operazione un contributo.
Ringraziando te e la tua famiglia per l’affettuosa condivisione , invio cordiali saluti
Mirella Genovese
CANAPE
Percezione – nel vento –
del gemito del mare mentre
l’acqua sfiora
appena la rena
affluendo dalle isole
azzurre nella foschia
di primavera.
Palpitare di raggi
in lievi increspature
di onde.
Attimi di pausa
nel moto irrefrenabile
di acque.
( Gioiosa Marea 1-4-2017 )
ALLA BIBLIOTECA CIVICA “NANNINO DI GIOVANNI”
DI BARCELLONA POZZO DI GOTTO (PROV. MESSINA)
In biblioteca
Altissima anfora
eretta fra alberi d’ibiscus.
Funeraria?
Ma i leoni di creta
accucciati
ai piedi di fanciulle
portatrici di luci
assorte
nei loro panneggi
di marmo
screziato di nero
non consentono
l’ingresso alla morte.
Barcellona 29-03-2022
Mirella Genovese
POESIE PER MIRELLINA
Sei bellissima
Sotto il davanzale della finestra
un tetto di tegole rosse
e una colomba che tuba.
Cosa avverrà, di notte,
quando, placida, la luna
apparirà oltre le nubi
su questo paesaggio
di tetti e comignoli
che fumano
e su quella musica
di macchine radiogene,
che ritmano anche i battiti
dei cuori di degenti?
Tu canti
Sei bellissima
al ritmo del tuo smartphone
acceso
sul tuo letto di degente
e sorridi.
Un saluto al Padus
Ti saluto, Pade mio,
ti saluto e non è un addio.
Quando tornerò
profumate gemme scorreranno
lungo la tua corrente
e fiorite fronde di alberi
e lime e papaye e manghi e avocadi e kiwi
e tu circuirai il ventre
della terra
oltre il Rio delle Amazzoni
fino all’arcipelago
dove lei – la mia bambina –
si librava allora da spalliere di ponti,
dimorava sulle sponde degli alberi,
si cibava di riso rosso
e di fette di avocadi e di manghi –
che tu, Pade,
dentro le tue sponde
ora culli.
Sono ancora rade
nella verde pianura
macchie rosate e candide
e pruni in fiore
-non mandorli
né memoria dei loro frutti
modellati
in dolci di pasta martorana,
fette di anguria
rosse, castagne abbrunate, ciliegie,
che i Santi deponevano, un tempo,
in cestini nei recessi
di case, la vigilia della festa dei Santi.
Radi anche cespugli di mimose
leggere come piumini di cipria
fra il rosso allegro
che folleggia sui muri delle case
rosso mattone
-la consistenza
contro il liquido attentato
delle acque.
Contempleranno ancora
i degenti
il miracolo del risveglio autunnale
della natura in fiore,
segno di rinascita
non consentito agli umani?
Sopra un azzurro elastico di nebbia
navigano ancora
innevati altissimi monti
elevandosi verso
assonnate nubi che
vertiginosamente
spirano
nei venti.
Flash
I
La chioma gasata
oscilla al vento
mentre avanzi con passo
di ballerina andalusa
e una cartella da disegno
sotto un braccio.
II
Sull’ippogrifo pencoli
mentre scrivi parole
crociate e ascolti musica
con un walkman strettamente allacciato.
Russa
Sotto il bulbo
di S. Basilio
con altissimo colbacco
e guance rosse
come fragole
appari.
Più preziosa dell’altare
di malachite e di tutte
le icone dorate
più preziosa dell’ambra
delle stanze imperiali
e di vasi autentici
dinastia Ming
più preziosa dei Tiziano
e dei Velasquez dell’Hermitage
con i cigni sulla Nieva giochi
mentre il Palazzo
d’Inverno approda
in un mare innevato.
Verso nuove Indie
Cristoforo Colombo invidierebbe
la falda rosa
del tuo berretto
d’ammiraglio che giri
sull’orecchio
mentre allo specchio
ti rimiri
davanti al banco
di Piazza Vecchia.
Volano i petali
dell’albero di primavera.
Nel vento dell’Est
verso nuove Indie
lentamente navighi.
Praghese
Sei una fata
ducentesca con la vita
segnata sotto il seno
un vestito smilzo
uno strascico rosa
e un tronco di cono
come copricapo.
Ho notato la macchia rosata
della tua veste
forse a Karlstein
o nel castello di Praga.
La tua bacchetta
celata nella manica
ha trasformato Piazza Vecchia
in una Pasqua con uova
trainate da morbidi conigli
e da pulcini incantati.
Portoricana
Oggi sei ragazzo
di strada con fronte
fasciata di bandana
tra nugoli
di portoricani e danzi
un tip tap
con movenze di regtime
gorgheggi blues
in campi di cotone
da tempo obliati.
Sogno
Sollevo il velo
bianco rosato
e tu bruna in tutù
rosa pesco
arabeschi la notte sulle punte.
Danze domestiche
Inarcata sfiori
appena i rubinetti
mentre lavi
cataste di piatti
sulle punte ti sollevi
con grazia li sistemi.
Figure disegni
maneggiando pentole
coreografa esotica
di danze domestiche.
Danze orientali
Azzurro il velo
sospeso nelle mani
avvolge il volto
di seminude odalische
con calzoni di velo blusanti.
Il ventre scoperto
rivela un ombelico
come un bottone di giglio.
Quando il volto discoprono
non so
dove sei
in quella nuvola
azzurra di odalische
che su punte di babbucce
d’oro danzano.
DA “PUPATTOLA” (Ed. del Leone 2003)
La famiglia felice
Tanto tempo fa, viveva in una vecchia fattoria, insieme con altri animali, la vitellina Gelsomina, che giornalmente si adagiava sulla morbida paglia a leggere e a scrivere. Tutti l’ammiravano e i suoi romanzi, le poesie o le favole venivano comprati da tutti. Con il ricavato manteneva i tori che così non venivano mandati dal padrone della fattoria nelle corride dove alcuni uomini, dopo che si erano stancati di muovere pezzi di stoffa per attrarre, con il colore rosso, quegli animali, li uccidevano. La vita di Gelsomina scorreva abbastanza bene, ma un giorno pensò: ”Se io me ne andassi a cercare un buon marito, la mia vita cambierebbe”.
Se ne andò via correndo felice, con la mente rivolta al suo avvenire, nel primo vento dell’alba primaverile.
Correva forte. Poi, stanca, rallentò. Aveva fatto miglia e miglia di corsa. Pareva perfino che fosse un po’ dimagrita. Pensare che la povera Gelsomina già vedeva come sarebbe cambiata la vita!
Mentre camminava piano, un uomo che sapeva catturare bene gli animali l’acchiappò con una corda abbastanza robusta e la legò come un salame. Poi l’imbarcò sulla nave di un amico perché la trasportasse in Africa. Passarono i giorni e le settimane e la povera Gelsomina soffriva sempre di più per il mal di mare! Quando finalmente la nave attraccò in un porto, gli scaricatori scaraventarono sulla banchina la gabbia in cui era rinchiusa Gelsomina.
Dopo molte peripezie, la vitellina riuscì a fuggire e la gente che la vedeva passare l’osservava con stupore. Appena giunse in un posto isolato, si riposò all’ombra di una quercia grande con tante foglie verdi. Dopo alcuni minuti, passò da quel luogo il leone Malachia, che si fermò a guardarla. Poi lottò contro di lei. Gelsomina, per fortuna, si difese: colpì il povero Malachia nella zampa posteriore a destra. Quello si fermò a leccarsi e a curarsi le ferite.
“Bene. Bene. Si vede proprio che sei forte. Per fortuna, altrimenti qualcuno ti avrebbe uccisa!”, disse il leone.
Gelsomina rispose: ”Ma come? Era tutta messa in scena? Non volevi attaccarmi, ma desideravi solo vedere se ero forte e coraggiosa?”
“E’ vero. Sei forte e coraggiosa. Potresti diventare mia moglie!”
“Mi dispiace. Non possiamo sposarci perché non apparteniamo alla stessa razza”.
“Basta che ci si voglia bene!”
“Hai ragione. Anch’io cercavo un marito con cui condividere la mia vita. Vedrai. Passeremo dei momenti felici. Io ti proteggerò perché sei il mio caro e dolce marito”.
Il leone disse: “Ricordati che anch’io ti proteggerò a costo della vita”.
Così i due vissero dei momenti veramente felici. Era loro desiderio avere dei figli che
continuassero la loro esistenza e la loro razza.
Un giorno, mentre passeggiavano sopra un prato, videro una cucciolotta di leopardo. Com’era carina! Come soffriva! Era tutta sola e stava morendo di fame!… Così presero la cucciolotta e la chiamarono Mige. Per loro fu come una vera figlia. Non le facevano mancare nulla. Le insegnavano tutti i concetti fondamentali della vita perché potesse sopravvivere.
Venne anche il giorno in cui avrebbero dovuto spiegarle la sua vera identità. Così le raccontarono la verità cioè che non era loro figlia, ma apparteneva alla famiglia dei leopardi. La cucciolotta comprese ed accettò i suoi genitori adottivi come se fossero stati i suoi genitori naturali. Con il passare del tempo crebbe. Venne così il giorno in cui dovette dire per sempre addio ai suoi cari. Era diventata, infatti, adulta e viveva con la sua famiglia composta dai figli e dal marito che, per razza, era uguale a lei.Così, cari bambini, si perpetuano nel tempo le famiglie che vengono una dopo l’altra come una catena senza mai fine.