VINCENZO CONSOLO:
LA SICILIA TRA LIMBO DELLA STORIA
E SPASIMO ESISTENZIALE-
UNA PERLA CRITICA DI CARMELO ALIBERTI,
UN’ANALISI PREZIOSISSIMA DELLA NARRATIVA
DEL POETA DELLA STORIA
PREFAZIONE DI FRANCESCA ROMEO (GIORNALISTA PROFESSIONISTA E SCRITTRICE)
POSFAZIONE DEL POETA E CRITICO LUCIO ZANIBONI

PREFAZIONE
di Francesca Romeo
“Traversare la Sicilia intera, visitare quelle città e quei paesi un tempo vitali per umanità e cultura, carichi dunque, ancora fino a pochi anni addietro, di volontà e di speranza (…)” scriveva Vincenzo Consolo in un articolo intitolato “Paesaggio metafisico di una follia pietrificata”. Ed è letteralmente con una traversata della Sicilia che inizia il viaggio del professore Carmelo Aliberti nell’universo mitopoietico di Consolo, fatto non solo di terra ma soprattutto di sangue e di anima. Sangue e anima che scorrono impetuosi impastandosi con la terra di ieri, di oggi, di domani. Caroselli di figure che si rincorrono in un teriomorfismo ancestrale. Luoghi che si sovrappongono. Anime che fuggono. Spiriti che restano. Esuli che ritornano. Aromi speziati di zolfatari, odori acri di sudore, colori, agrumi e “ombre misteriche, fantasmi innamorati scintillanti nel mattatoio delle zagare” come scrive Aliberti nelle primissime pagine. E lo fa in quel canto denominato “Il licantropo e la luna” in cui il saggista magistralmente ripone, in 165 versi di straripante bellezza, tutto lo splendore intrinseco di ciò che è il fascino e l’essenza del pensiero consoliano. Un saggio intenso, sibillino, impregnato di sostrati mitici e iconografie del reale, che diventa quasi un dialogo velato tra Aliberti e Consolo. Tra poeta e poeta. Tra scrittore e scrittore. Tra figli di una stessa Sicilia, nutrice e matrigna, amata e rimpianta, “pietrificata” ma anche viva, nel cui passato si muovono attualità sconcertanti e viaggiano innumerevoli “Ulisse” alla ricerca della propria perduta Itaca. Una Sicilia “ipotecata dalla letteratura, dal mito, dalla leggenda” come la definì Consolo in “L’idea della Sicilia”. Aliberti, con somma duttilità, riesce a sviscerare l’interiorità velata nelle pagine dello scrittore siciliano. Ne mette a fuoco i dettagli, i rumori, i pensieri, l’epochè di husserliana memoria, il dualismo ontologico e gnoseologico in cui la separazione e la trascendenza del mondo ideale rispetto al mondo sensibile implicano anche una separazione delle forme della conoscenza Ed è iniziando da “Nottetempo, casa per casa”, insignito del Premio Strega nel 1992, che Aliberti amalgama tutti gli ingredienti gravitanti nell’universo consoliano. In quella Cefalù degli anni Venti avvolta dai primordi del fascismo, pixellata da un ancestrale teriomorfismo, turbata da esotici esoterismi, convulsa dal “male catubbo”, il saggista scova i segni di “una apocalisse storica che rischia di essere ‘nuda crisi’, catastrofe senza rinnovamento, che diventa metafora per il presente” (pag. 19). Un criterio di verità che si manifesta attraverso antinomie che scavalcano il condizionato e danno luogo a premesse storiche in un ars combinatoria dalle sfumature escatologiche. Toccante l’analisi anamnestica delle due sorelle Lucia e Serafina, l’una preda di una “pazzia che prima ancora di essere assenza e distanza è urlo innaturale”, l’altra “col nome programmatico di chi non appartiene a questo mondo” (pag. 29). Entrambe figure immobili, pietrificate. Entrambe avvolte dall’incontro con la propria sofferenza. Iconografie del dolore che Consolo cesella e Aliberti estrapola nella potenza di una metamorfosi ovidiana, in cui il reale, generato dall’esperienza devastatrice, dà voce all’apoteosi della tragedia. Emerge il paradosso dell’incomunicabilità in quel rimando alla torre di Babele: simbolo del “caos, del disordine e della confusione”, principio dell’incomunicabilità, della finitezza umana. È il logos parola primigenia, concezione mitica, razionale, legge, struttura, armonia degli opposti. Consolo forgia parole, le incide sull’anima prima che sulla carta, le usa come bisturi per sviscerare non la psicanalisi dell’uomo, ma l’uomo dall’uomo e con esso tutta la cultura di un popolo, quello siciliano, con le sue glorie e le sue viltà, i suoi trionfi e le sue sconfitte, le sue contraddizioni eterne.
Da una dettagliata analisi narrativa a quella interpretativa della produzione consoliana, Aliberti attraverso una stesura colta di rimandi e citazioni, evoca una vertiginosa pluralità di status, di immagini, di sentimenti che convivono sotto diverse forme in un’anamnesi dell’essere e dell’esistenza che afferma e nega. E ancora “il destino d’ogni ulisside di oggi” come lo definiva Consolo stesso, il rapporto con la Sicilia, la memoria, il viaggio, l’emigrazione, le devastazioni, le stragi mafiose. Impossibile a questo punto per l’autore del saggio non ottemperare “Lo Spasimo di Palermo” (1998): “È il meno lineare dei libri di Consolo nell’ossessivo affollarsi di passato e presente, nella contrapposizione di storia e memoria, nel vano bisogno di confronto che il ricordo potrebbe offrire e che suscita, invece, un bruciante sentimento di patimento, di sofferenza, di spasimo appunto” scrive Aliberti. Un linguaggio scorrevole, profondo, espressivo quello del saggista che a tratti si palesa come un’opera nell’opera, con picchi aulici di vera poesia, come accade quando apre al lettore una finestra su “Catarsi”. Linguaggio che si fa cronachistico, netto, sciabolante, come quando descrive l’atto unico intitolato “Pio La Torre, orgoglio di Sicilia” (2009) e nel cui testo Aliberti individua “la fertile eredità lasciata da Consolo ai più giovani”. Un approccio indubbiamente caratteristico quello del saggista alle opere di Consolo in grado di generare armoniose perturbazioni emotive, di approfondire e chiarificare significati e significanti. Come il saggista ricorda, Consolo più volte affermò che ciò che maggiormente gli interessava era raccontare la storia, la Sicilia. Una storia filtrata però dalla lente dei vinti, cui lo scrittore siciliano dà voce. Particolare attenzione Aliberti pone all’ulissismo intellettuale di Consolo in cui il protagonista delle vicende omeriche e il suo viaggio diventano per l’autore metafora di ricerca su più dimensioni. La Sicilia come Itaca, sospirata meta ultima, “patria-matria” cui sempre anelare, ma che “può essere paragonata alla Troia incendiata di Omero, rappresenta anche l’incupirsi della visione consoliana, che coinvolge l’intera storia italiana” sottolinea Aliberti mentre si sofferma sul “negativismo storico” e la “necessità di testimoniare ”insieme al “silenzio narrativo dello scrittore”. In questo saggio l’autore migra tra i gli scritti di Consolo, respirandone i temi ricorrenti, i luoghi, le atmosfere di speranza e le unzioni deluse, le voci, le urla, le infamie morali, il senso nascosto delle cose. E, ancora, Aliberti apre scenari intonsi, esplora, scandaglia, interpreta, suggerisce. Un saggio in cui echeggiano tutti i tempi di Consolo, in cui gravitano tutti suoi personaggi come isole galleggianti degli Uros. Una corsa a ritroso. Un fuga verso l’infinito. Un varco che si apre al di là e al di qua della terra, del sangue, dell’anima. Un complesso in crescendo di concezioni ispirate ,devote, fondamentali, in cui il sensibile e l’intelligibile diventano punti essenziali del pensiero, delle parole. Quelle stesse parole che esistono e che Consolo definì essere “come biglie chiuse con un mistero dentro: bisogna aprirle”. Parole gravide di energia, di vibrazioni, che si manifestano in una travagliata maieutica del “dire”. Parole che Aliberti osserva, coltiva, raccoglie in una straordinaria attenta messe dell’universo consoliano: “ma solamente i poeti, ancora, posseggono l’oscuro segreto delle parole per dire, con la più alta dignità e più alta bellezza, della grande avventura dell’esistere, della vita” scrive Consolo.
dott. sa Francesca Romeo
(giornalista e scrittrice)