CARMERLO ALIBERTI
BRICIOLE DI UN SOGNO (Bastogilibri, luglio 20219
DI FRANCESCA ROMEO ( DOTT.SSA, GIORNALISTA PROFESSIONISTA, SCRITTRICE)
“BRICIOLE DI UN SOGNO” E’ QUALCOSA DI PIU’ DI UN SEMPLICE ROMANZO. È UN SILLOGISMO NARRATO DI PREMESSE E CONSEGUENZE . È UN ATTO DI FILOSOFIA . UN PROCESSO STORICO . UN’INDAGINE SULL’AGIRE MORALE TRA RAGIONE MORALE,ISTINTO E SENTIMENTO. UNA DOTTRINA ETICA. UN LIBRO INDUBBIAMENTE UNICO NEL SUO GENERE, QUASI UN’ATAVICA PIETRA FILOSOFALE, CAPACE DI TRAMUTARE REMOTE REMINISCENZE IN LUOGHI DI VERITA’ DELL’ANIMA DI UN POPOLO.
C’è tutto un mondo dentro le pagine di “Briciole di un sogno” del prof. Carmelo Aliberti. Un mondo al confine tra l’onirico e il reale, in cui tutto si mescola e si amalgama in un continuum spazio-temporale senza precedenti, e in cui “il tutto” riesce a mantenere intatta la propria identità. Il mondo è quello siciliano. Storia di una terra intrisa di profumi, colori e “scrusciu du mari” (cit. A. Camilleri) e di un popolo continuamente assolto e condannato. Storie di vita, di sofferenza, di asservimenti, di iniquità, di riscatti. Una trama finemente tessuta in cui Aliberti riesce ad incastonare, senza sfasature, l’ampio paesaggio storico-letterario dell’Italia tutta. “Briciole di un sogno” è insieme uno e molteplice, proprio come le numerose briciole che provengono da un unico pane. E come il pane profuma di buono, di casa, di famiglia, di tradizione, di sogni, di speranza. Tutto inizia con un ritorno. Il ritorno alla terra natia. È il 10 agosto: giorno di San Lorenzo, notte dell’atavico “pianto delle stelle cadenti”. Si apre così con lo sguardo dello scrittore rivolto al suo mondo, quello della sua infanzia, quello dei ricordi e del senso nostalgico della vita. Vita, morte, dolore, cronache, riflessioni, poesie si rincorrono dentro un calderone in cui passato, presente e futuro si decompongono e si annullano, quasi in un processo che svuota la realtà per riempirla subito dopo. Un vaso di pandora che, una volta aperto, travolge il lettore con quelle mille e una storia che Aliberti ha saputo ben cucire una accanto all’altra in un romanzo composto, equilibrato, simmetrico. Un linguaggio elegante e ricercato che Aliberti riesce a mantenere leggero e scorrevole, comprensibile e affascinante. È il risultato di un bagaglio culturale profondo, denso di tutte quelle sfaccettature e di tutti quei colori di un vissuto in cui l’esperienza lascia la sua impronta.
“La vita scorreva automaticamente, sempre uguale, ogni giorno la gente oscillava su un binario che li portava dalla propria dimora, al luogo di lavoro al mare” scrive Aliberti ricordando le sfumature di quella noia asettica di stampo moraviano, in cui tutto si compie senza coinvolgimento autentico. La gente, su quel binario, si lascia trasportare dagli eventi in quella tregua estiva da una pandemia che ha sconvolto le esistenze. Un flusso indistinto monocorde che si lascia vivere trascinato dalla corrente. Senza gioia. Senza vivere veramente. Poi tutto diventa asettico. Angosciante. Ospedalizzato. Il virus sconosciuto è il nuovo padrone del mondo. Un annullamento globale dei rapporti umani spezzato da un abbraccio di umanità che lascia spazio alla speranza. Nulla è ancora perduto. E poi inizia il viaggio. Un odissea onirica che attraversa spazi siderali di astrazione e immagini reali, che fa tappa su isole di conoscenza e riprende il largo tra onde inesprimibili di esistenze e ricordi. Aliberti apre scenari sociali, indaga sulla razionalità delle scelte, punta lo sguardo sull’uomo e sull’umano. Attraverso improvvise fughe dalla realtà offre al lettore respiri d’infinito dalle sfumature filosofiche. Come Dante, più volte citato tra le pagine, lo scrittore tesse un dialogo con la sua Beatrice, che da sempre lo chiama e guida i suoi passi. Proprio come la Divina Commedia, “Briciole di un sogno” attraversa mondi umani e storie di uomini, drammi spesso narrati con la stessa crudezza con cui hanno investito la realtà; delinea figure emblematiche di donne abusate da una società maschilista; scorci paesaggistici in cui si percepiscono profumi e colori; figure fatte di terra, umili e ricche di dignità; intrallazzi politici, disumani e calcolatori; grande storia; popolo. Picchi di grande sentimento cedono il passo ad escalation di drammi. Aulicità poetica e linguaggio cronachistico si susseguono pagina dopo pagina. Soliloqui che scavano negli abissi reconditi dell’Io e diventano indagini sull’ essere umano. Una parabola intrisa di atavica tensione, di quella sicilitudine sciasciana, fatta di tormento e inquietudine interiore, percorre l’opera, connotando quel contesto feudale in cui il potere della casta obnubila, logora, asservisce e, persino crudelmente beffa. E lo vediamo in quella richiesta di un aumento del salario al vossia da parte dei pastori. E il vossia, il padrone don Giuseppe, finge un beffardo viaggio a Roma per esporre la richiesta al re, e per autorizzare, al suo atteso ritorno, una risposta a suon di schioppettate se i pecurari avessero ancora rivendicato i loro diritti. Degno erede di Sciascia e Bufalino, l’autore rende netta la dicotomia tra il profondo nero dell’Isola e la sua luce abbagliante, rendendo visibile le tante isole dell’Isola, la pluralità intrinseca, la sottomissione e il riscatto, l’inettitudine e la volontà di agire, analizzando le ragioni storiche e quelle proprie dell’essere isolani. Un variegato carosello di personaggi sale sulla scena. Si presentano a mani nude, aperte, umili. Svelano i loro sogni, la loro vita, le proprie debolezze. Approdano nel cuore del lettore che li vede sfilare davanti con la veste logora dei loro drammi. È il teatro della vita! Un immenso palcoscenico in cui, citando William Shakespeare, “ciascuno deve recitare la sua parte”. Aliberti assurge al ruolo di regista. Sceglie accuratamente i suoi personaggi: attori, prime donne e comparse. Li tira fuori dal suo cilindro magico in bilico perenne sul filo rosso della vita. Li accompagna per mano. Li presenta. Ne scolpisce i tratti. Mette a nudo la coscienza. Accende i riflettori e li punta ora al centro del palco, ora ai margini. Ora sulla scenografia. Ora sul pubblico silenzioso nella sala. Una scrittura densa di rimandi e colte citazioni, velate e palesi, a quel fitto intrigato mondo che è la storia della letteratura italiana, ma non solo, alla grande storia, alla microstoria. E così incontriamo la divina Provvidenza di manzoniana memoria, Quasimodo, Consolo, Verga, Foscolo, San Francesco d’Assisi, Neruda, Emilio Isgrò, solo per citarne alcuni. Suggestiva la storia “di una certa Francesca, venuta da molto lontano, con un bambino in braccio, sofferente per una qualche invisibile anormalità che i medici non erano riusciti a diagnosticare e guarire”. Storia che si lega a quella della Madonna del Tindari, tra l’ultima speranza e l’incapacità di credere ancora in un miracolo. Storia in cui ignoranza, miseria e crudeltà vanno di pari passo, mutilando indelebilmente l’anima ancor prima del corpo nella triste consapevolezza che cu nasci povuru, mori povuru. “Allora, perché viviamo. Che senso ha la nostra presenza sulla terra? Solo per partorire creature che continueranno a vivere nelle privazioni, nella sofferenza e nella disperazione” è il pianto liberatorio di disperazione della donna. A tinte forti l’autore dipinge l’amaro quadro della povertà attraverso storie diverse che diventano anche contenitori di fede e valori, in una “terra un tempo tempio degli dei, terra popolata dai miti e dagli eroi, terra d’amore di sudore degli zolfatari e dei carbonai”(scrive a pag. 148), e lo fa attraverso un tempo che sembra aver annullato la propria temporalità misurabile e misurata. Tempo agostinianamente inteso come estensione dell’anima. Aliberti dà voce agli ultimi, ai dimenticati, a quello scarto di umanità relegata ai margini di una società in cui tutto sembra essersi cristallizzato nella perenne circolarità del dover subire abusi di potere e sopraffazioni. Un mondo povero, arido, ma in cui non tutto è perduto. C’è uno spiraglio, una luce alla fine tunnel, una possibilità di riscatto, dunque, di rinascita.
Stralci di storia appaiono tra le pagine secondo una metodologia solo apparentemente casuale. Epoche, aneddoti, momenti, trovano la giusta collocazione legandosi allo sviluppo dell’essere e delle possibilità umane, in una concezione quasi herderiana della storia stessa, in cui l’essenza dell’uomo è storica nella sua stessa sostanza, ovvero tutte le manifestazioni dell’uomo hanno la stessa dignità e sono tutte meritevoli di studio. Dalla contemporaneità in cui si apre il romanzo, agli anni Sessanta, al dopoguerra, al boom economico, al dramma dell’emigrazione meridionale, al secondo conflitto mondiale, allo sbarco dei Mille, e ancora oltre, giungendo attraverso la terra dei miti ad Ulisse e alla battaglia del Longano del 273 a.C., ai Fenici, alla preistoria dei luoghi narrati! Un eterogeneo alveo in cui tutto fluisce e da cui tutto defluisce, in cui le parti spezzate si ricompongono attraverso un linguaggio che dà senso e unità al molteplice.
In questo caleidoscopico multiverso polimorfo si proietta anche una storia d’amore tra il giovane alter ego dello scrittore e Carmelita da una parte e Rina dall’altro. La prima è il ricettacolo di quell’amore che compie il significato della vita. L’amore vero che, come scrisse Ungaretti, “è una finestra illuminata in una notte buia. Il vero amore è una quiete accesa”. L’altro, quello per Rina, è un amore fraterno verso la donna angelica. “Perciò il mio cuore è diviso e congiunto tra due amori: uno mi soffia nel suo sguardo, l’altro mi strascina ad altro Bene” scrive con immensa poeticità Aliberti a pag. 359 in quella che possiamo definire una delle pagine più belle dedicate a quel nobile sentimento che è “l’amore che move il sole e l’altre stelle”(cit. Dante)
“Briciole di un sogno” diventa così qualcosa di più di un semplice romanzo. È un sillogismo narrato di premesse e conseguenze. È un atto di filosofia. Un processo storico. Un’indagine sull’agire morale tra ragione, istinto e sentimento. Una dottrina etica. Un libro indubbiamente unico nel suo genere, quasi un’atavica pietra filosofale, capace di trasmutare remote reminiscenze in luoghi di verità dell’anima di un popolo.
dott. ssa Francesca Romeo (giornalista e scrittrice)