IL POETA BARTOLO CATTAFI IN UN SAGGIO DI CARMELO ALIBERTI: “CERCO’ DISPERATAMENTE DIO E LO TROVO’ NELL’ARCIPELAGO DEL CUORE
CERCARE TRA LE PITRE GRIGE E PESANTI DELLA REALTA’ LE TESSERE LEGGERE E SPENDENTI DEL SACRO-
Oggi più che mai la vita del poeta è impervia e dura. Il vero poeta, in senso esistenziale prima che letterario, il poeta veggente che con ogni sua nuova parola riconsacra ogni volta il mondo e l’universo. In un’epoca come la nostra di eclissi del sacro “vivere poeticamente” come scriveva Hölderlin, implica un destino di solitudine e di dolorosa ricerca. La vita e l’opera del poeta Bartolo Cattafi (1922-1979), narrate ed esplorate da Carmelo Aliberti nel suo saggio “Il poeta Bartolo Cattafi. Cercò disperatamente DIO e lo trovò nell’arcipelago del cuore” (Edizioni Terzo Millennio, Ottobre 2021, euro 12,00–contributo), sono una metafora di questa condizione di confine che transita senza posa dalle cose visibili e materiali a quelle invisibili e immateriali. Aliberti, poeta e saggista letterario molto legato alla nostra città dove ciclicamente trascorre lunghi soggiorni, scrive con il presente saggio una sorta di auto[1]biografia umana, etica e spirituale di Cattafi, perlustrando, in una tonalità lirica e intensamente commossa, la poesia di un autore a lui molto caro e profondamente affine, pur nelle diverse declinazioni espressive ed emotive delle loro creazioni. Il destino di un poeta La coincidenza tra vita e destino è un sigillo comune a tutti i veri poeti. Il fatto di nascere con un’inclinazione all’ascolto del silenzio misterioso che avvolge tutte le cose, dotati di una sensibilità particolare nell’avvertire le lacerazioni dell’esistenza e i mali della storia, determina un destino sempre diviso tra dolore e gioia, incomprensione e pienezza, spaesamento mondano e familiarità con il divino: in sintesi, come scrive nel titolo del suo saggio Aliberti, un destino “tra spasimo esistenziale e ansia metafisica”. L’autore del saggio, dopo aver delineato in modo sintetico un profilo biografico di Cattafi, perlustra con voce a sua volta più liberamente poetica e creativa che non aridamente critica e accademica, la formazione artistica, le opere e i loro principali nuclei tematici. Nato nel 1922 a Barcellona, Bartolo Cattafi rimane presto orfano del padre, perdita che segna in profondità l’indole già molto delicata e sensibile del poeta. Laureatosi in Giurisprudenza, all’esercizio della sua professione preferì la letteratura, ragione che lo spinse a intraprendere innumerevoli viaggi in diversi paesi dell’Europa e dell’Africa e ad entrare in contatto con alcune delle avanguardie poetiche più stimolanti del tempo come il Gruppo futurista in Sicilia e poi il Gruppo ‘63 a Milano. Il suo apprendistato incise in profondità nella sua ricerca delle potenzialità evocative della parola: le risonanze, i molteplici sensi, le possibilità musicali creatrici di nuovi e inattesi significati. La parola cattedrale, tutta da esplorare e con[1]templare, ricca di anfratti, di cupole, di sotterranei, di guglie, di vetrate e di giochi di luce suscitatori di nuovi colori e di nuove forme: la parola poetica concepita come un insieme di involucri variopinti, istoriati con figure ancestrali e arcane tra cui spigolare le tracce del sacro. La terra che più lo ispirò fu la Sicilia, con le sue zagare, i suoi aranceti, i suoi cieli e i suoi mari di un azzurro irreale e ammaliante. Nel 1967 si trasferì definitivamente a Terme Vigilatore, vicino a Messina, nella villa in cui nel 1943, durante una convalescenza per un malattia contratta durante il servizio militare nella seconda guerra mondiale, scoprì la sua vocazione poetica e il desiderio indomabile di un canto per celebrare la bellezza delle cose e la loro aura divina. La morte lo colse nel 1979 a Milano, altra sua meta privilegiata ove riposare e decantare le esperienze dei suoi pellegrinaggi tra Europa ed Africa. Oscillazioni. Guardando bene tra i sentieri petrosi e dissestati dell’esistenza si trova sempre qualche piccolo fiore. Sono i poeti a insegnarcelo, poeti come Bartolo Cattafi. Nelle sue sillogi poetiche — tra le altre, “Nel centro del[1]la mano” (1951), “Le mosche del meriggio” (1958), “L’Aria secca del fuoco” (1972), “La discesa al trono” (1975) — Aliberti segue e svela un filo che tutte le attraversa, un filo cangiante che muta colore passando dal nero al rosso fino all’oro e all’argento. Vi sono poi i tratti di transizione che uniscono insieme i colori dominanti inclinando l’ispirazione e la parola ora più verso il buio ora più verso la luce, con intrecci improvvisi come d’arcobaleno o di pietre preziose. La natura, il mondo umano e l’eco spirituale che li aureola e li rende veramente vivi: intorno a questi microcosmi oscillanti nell’infinito Cattafi ricama i suoi versi folgoranti. Aliberti scava nella loro trama e ne fa affiorare un progresso dal buio alla luce, dal dolore all’estasi. La ricognizione inizia tra le cose, gli oggetti, le epifanie della natura. Intorno a sé il poeta vede distendersi il mondo materiale, quello che Cartesio avrebbe chiamato la res extensa. Questo regno di estensione e quantità palpabile si manifesta in due forme diverse. Ora è il manto di bellezza che avvolge gli spettacoli naturali dei luoghi da lui visitati e soprattutto i paesaggi assolati e caldissimi dell’amata Sicilia. Ora è la massa rappresa e oscura, densa e pesante che grava sull’esistenza concreta, reale, abitata dall’uomo moderno, naufrago disperato nel mare morto di un mondo svilito e avvilito che ha occultato la bellezza e la bontà dell’essere: «E la foglia caduta / che un giorno colsi col pie[1]de e feci mia / si è staccata, / mi svolazza intorno, mi rinfaccia / un corpo pesante / il passo del mio piede» (“Come vanno le cose”, in “L’osso, l’anima”). La ricerca metafisica Ma l’intuito poetico di Cattafi, osserva ripetutamente Aliberti, non si ferma qui, ma va ben oltre. Lontano, verso quell’orizzonte ove il visibile si arresta e pare proiettare un’aura leggera e lucente, simile all’arcobaleno dopo una tempesta. Riprendendo la definizione filosofica precedente, il poeta nonostante i continui scacchi da parte di una realtà esistenziale oscura ed errante e da parte di un mondo indifferente e ormai fuori rotta, di esperienza in esperienza, di viaggio in viaggio, spinge sempre più in profondità la sua parola, sempre più in là la sua vista interiore e scopre l’altro volto di questa realtà così nemica: l’immateriale, l’intangibile, la res cogitans. Non è una visione limpida, assoluta e perfetta, ma un darsi per lampi e bagliori, come squarci di luce nella notte. Qui Cattafi raggiunge l’acme della sua ricerca: lo spirito, la voce di Dio, la sua presenza, l’interiorità che è tempio sacro, splendono all’improvviso tra cosa e cosa, come frammenti colorati e lucenti di mosaico tra le pietre grige e la roccia inaggirabile del nostro esistere ed essere per la morte. A questo punto lo “spasimo esistenziale” trapassa nell’“ansia metafisica”, passaggio necessario per chiunque decida in se stesso di andare oltre, di viaggiare, di esplorare e di non accontentarsi mai del poco o niente che l’esistenza concreta e terrena sembrano destinarci. In un mondo che vola bassa, radente il suolo, ormai incapace di reggere l’aria delle vette, Bartolo Cattafi eleva il suo canto dalla palude terrena all’azzurro dei cieli e dei mari, abbandonandosi alla sua “discesa al trono” dell’essere: «(…) tra alberi profumati, / acque e cieli azzurri, / percepii il risuono / del richiamo di Dio». In te confido / tutto ho rubato al mondo/ sei il Cubo, la Sfera, il Centro / me ne sto tranquillo / tutto t’è stato ammonticchiato dentro Mancavano pagine / il marmo dell’epigrafe / era scheggiato / due sole parole cetera sunt (…) parole su frontone di un tempio vuoto / vorticanti col vento come per dirci / solo noi ci siamo / tutto il resto manca / era questo che non sapevate.
ALESSANDRA SCARINO–TRIESTE