Vitaliano Brancati
Coetaneo di Vittorini e di Moravia, Vitaliano Brancati si distanzia notevolmente dall’efficientismo vitalistico del primo, pur apparentemente velato da una sottile nostalgia, e dal problematicismo esistenziale del secondo, scaturito dall’esasperazione di un certo materialismo erotico-consumistico. Egli si allinea alla tradizione della migliore narrativa siciliana, su cui innesta comicità e umorismo, riuscendo a sottolineare nelle sue opere la condizione di alienazione e di follia della borghesia cittadina della Sicilia orientale durante il fascismo, in cui si riflette metaforicamente il ritratto di un’intera società.
I personaggi brancatiani oscillano tra passività comportamentale e fatalismo, tra erotismo e apparente aggressività, non intraprendono alcuna iniziativa, vivono in una sorta di vuoto quotidiano, scandito da gesti e ritmi demenziali, tra discorsi e sofisticazioni illusive che li tramutano nell’ideale ritratto degli «inetti sveviani e tozziani».
La scoperta di un filamento di infantile dolcezza sembra per un attimo riscattarli dalla condizione di devastazione interiore, particolarmente quando Brancati contrae l’esasperazione del dramma in una sorta di “sensualismo barocco”, dove, come osserva Giulio Ferroni, l’escrescenza sintattica produce effetti di singolare ingegnosità, che conferma ulteriormente la lontananza di Brancati dai procedimenti paratattici o dalle suggestioni liriche della narrativa coeva.
Vitaliano Brancati nacque a Pachino, in provincia di Siracusa, il 24 luglio 1907 da padre funzionario di Prefettura e scrittore dilettante e con un nonno paterno, autore di poesie in vernacolo. Dopo vari spostamenti, dovuti all’attività paterna, la famiglia si trasferì nel ’20 a Catania, dove il giovane si formò culturalmente e dove incominciò a sviluppare i suoi interessi intellettuali. Infatuato dalla pubblicistica di un illusorio progressismo fascista iniziale e dalle sirene incantatrici degli euforici slanci dannunziani, incominciò a scrivere opere celebrative del nuovo sistema e patriottiche. Laureato in Lettere con una tesi su De Roberto, collaborò a giornali fascisti e, trasferitosi a Roma, entrò nella redazione de “Il Tevere”, divenendo anche caporedattore della rivista “Il Quadrivio”.
Qui scrisse i drammi Everest (1931), Piave (1932), L’amico del vincitore (1932), in cui traspariva la sua adesione al sistema politico dominante, che lo agevolò nella nomina a professore di italiano, nel 1933, in un Istituto Magistrale.
Ma il contatto con la cultura più aperta dell’ambiente romano, impresse ai suoi orizzonti mentali un respiro più vasto, tanto da indurlo gradualmente a svincolarsi dal retaggio di ogni complesso isolano e dall’influenza delle interferenze politiche. Nel 1946 sposò l’attrice Anna Proclemer, conosciuta nel 1942, da cui si separò nel 1953, dopo l’amarezza per le polemiche suscitate dalla Governante, bloccata dalla censura e rappresentata solo nel 1966, preceduta dallo scritto Ritorno alla censura. Intanto, in vari scritti, andava manifestando la sua preoccupazione per il nuovo clima di intolleranza che, nell’Italia Repubblicana, si diffondeva verso la cultura. Morì il 25 settembre 1954, dopo una grave malattia, durante un’operazione chirurgica.
Già nel romanzo Singolare avventura di viaggio (1934) egli, sorretto da un forte moralismo, non aveva risparmiato a se stesso una sincera resa dei conti e alle ideologie dominanti la corrosione della satira contro le ipocrisie e le manie istituzionali, tanto che il romanzo veniva sequestrato dalla censura per manifestazioni di eccessivo erotismo, intrise, tuttavia, da certe confuse movenze psicologiche e morali, espresse con una sorta di inconclusa dilemmaticità.
L’amicizia con l’antifascista Giuseppe Antonio Borgese (autore del Rubè, romanzo della crisi spirituale post-bellica e assertore di una letteratura moralistica per ricostruire l’uomo) autoesiliatosi negli Stati Uniti, influì sulla crisi politica del giovane Brancati, che si era ingenuamente inebriato da una visita del Duce, e lo indusse al suo volontario allontanamento dalla redazione del “Quadrivio” (il settimanale di L. Chiarini e T. Interlandi), con successivo ritorno in Sicilia, dove tra il 1934 e il 1936, a Caltanissetta, intraprese l’appartata attività di insegnante. La sua abiura del fascismo coincise con il ripudio dei suoi scritti giovanili, ritenuti “stupidaggini”.
Nel silenzioso rifugio della provincia siciliana, Brancati maturò la sua conversione intellettuale e artistica, passando dall’attivismo di matrice gentiliana, al liberalismo crociano e bergsoniano, nel contesto di una semplicità di vita e di convivenza ai margini della moralità, interpretata con scettica tolleranza e con la scoperta del comico. Gli anni perduti (1934-38), costituisce il primo romanzo dei rimpianti e della noia, pubblicato nel 1938 a puntate sul settimanale “Omnibus”, a cui collaborava con note di costume siciliano assieme a Maccari, Pannunzio, Longanesi e Savinio, scrittori dotati di una sottile carica di umorismo allusivo. In questo romanzo, come anche nella commedia Questo matrimonio si deve fare (1938) anche se strutturalmente disomogeneo, l’orchestrazione dell’immaginazione si mescola ad atmosfere tipiche del surrealismo, dove il bizzarro lassismo ambientale si intreccia con il gogolismo, come osserva Nino Borsellino, della periferia siciliana, assieme ad un dispersivo e farneticante vitalismo, destinato ad esaurirsi nell’abulia, nel nomadismo pragmatico e nella noia, delle cui inconcludenti manifestazioni si nutre l’umorismo brancatiano.
Il percorso della satira verso il culto del potere si esplicita più marcatamente nel racconto Il bacio, dello stesso anno (1938), dove, tuttavia la balordaggine del protagonista non si riesce a saldare equilibratamente con la concretezza della situazione.
Calata nel vivo mondo della tipicità catanese è la vicenda del Don Giovanni in Sicilia (1941) in cui un quarantenne provinciale agisce sullo sfondo di una città baroccheggiante, abbandonandosi a discorsi e a sogni, furiosamente invaso dall’immaginazione della donna, dove l’ossessione del maschio siciliano viene affrontata con delicatezza, senza mai sfociare nella caricatura, alimentando il tema del gallismo che permea le opere successive.
Protagonista del romanzo è Giovanni Percolla, un uomo coccolato nella sua crescita dalle tre sorelle che, sotto il velo della timidezza, nasconde il febbrile desiderio della donna, ma che a trentasei anni non ha vissuto alcuna esperienza amorosa, conoscendo della vita solo gli aspetti più ordinari.
Improvvisamente, alcuni compagni più esperti lo spingono a frequentare case di tolleranza, facendo maturare in lui il formarsi di un’idea stravagante della donna che viene soddisfatta dal piacere erotico con una ragazza di campagna. Presto conosce Ninetta, una ragazza continentale di cui si innamora seriamente e che sconvolge la sua quotidiana abitudine, tanto che le tre sorelle rimangono turbate dai suoi successivi comportamenti inusuali.
I due decidono di sposarsi e di abbandonare la Sicilia per recarsi a Milano, lasciando disagio e turbamento nelle persone che non avevano immaginato nel personaggio una simile scelta “trasgressiva”.
Qui si accentua l’attivismo del protagonista a contatto con i ritmi
e le usanze di un altro modello di civiltà, mutano le abitudini, e la sua sensualità si attenua nell’abbandono a fugaci rapporti amorosi, senza essere privi, tuttavia, dell’effervescenza erotica dei trascorsi catanesi, finché egli non ritorna in Sicilia dove riesce a conciliare le sue morbose eccitazioni sessuali con le stabili abitudini della vecchia casa.
Nella raccolta I pionieri (1943) egli, in contrasto con ogni fraseggiamento scettico, sotto la verniciatura ironica, coltiva l’aspirazione ad una rispettosa convivenza, tipica della borghesia ottocentesca da restaurare, nella previsione di un imminente crollo del fascismo, con dignitosa moralità civile.
Su tale percorso di estrinsecazione della limpidezza dello scrittore, al di fuori di ogni sovrastruttura estetica e manipolazione pseudo-ideologica, si colloca il racconto lungo Il gatto con gli stivali (1945), dove il tema erotico viene temporaneamente accantonato, per una diagnosi obiettiva della asfissiante condizione della società italiana sotto il fascismo che rappresenta un vero atto di accusa contro la disumanità del regime.
Il protagonista, il cinquantenne Aldo Piscitello, è un uomo mite, con una moglie invadente e tre bambini in povertà. Minacciato di licenziamento dal podestà perché non iscritto al fascio, egli, coartato dalla sua precaria situazione economica e sotto la pressione dei familiari, per evitare la condanna dei suoi figli alla fame, diventa un fascista militante. A poco a poco, però, sotto la camicia nera ha l’occasione di osservare le ripugnanti forme di soprusi, violenze, ipocrisie e dilazioni, che si perpetrano a danno degli indifesi e dei più deboli, sotto l’apparente maschera dell’ostentato benessere e delle comiziali illusioni di felicità, che, in realtà, hanno cancellato ogni forma di dignità individuale e collettiva. Perciò, sopraffatto dal disgusto morale per il dilagare di tanto pervertimento, riesce a manifestare solo in famiglia il suo profondo malessere psicologico, fino a quando getta con esasperazione quel fetido distintivo nell’orinale, irrorandolo di urina, ma per evitare le conseguenze disperate della sua scelta, è costretto a lavarlo e ricollocarselo all’occhiello della giacca.
Provato dai disastri della guerra e condannato all’esasperazione, ormai ridotto ad automa inerte, non riesce ad articolare segni di rivolta dinnanzi alle sentenze del sindaco che ha inteso, in tal modo, applicare la falsa coscienza democratica sull’umiliato e offeso della piccola borghesia.
Un atto di accusa lo scrittore pronuncia anche verso i regimi di apparente garantismo costituzionale dell’era repubblicana con il pamphlet Ritorno alla censura, scritto in occasione della proibizione della rappresentazione della sua commedia La governante (1952), a dimostrazione della permanente fede nella libertà dell’arte, necessaria sia per la maturazione delle coscienze che per una forma di ammonimento, anche sotto la veste dell’irrisione, in difesa della dignità dell’uomo. L’anticonformismo brancatiano, espresso nelle opere di più significativo distacco morale dalle situazioni comico-grottesche, rappresenta uno strumento liberatorio e trasgressivo di ogni tentazione al conformismo che aveva generato in Italia il mostro del totalitarismo prima, e la subdola trappola del velleitarismo democratico dopo la guerra.
Da tali apparentemente antagonistiche forme istituzionali, ma sostanzialmente coincidenti sotto le mascherature diverse degli inganni, il maturo Brancati prende assoluta distanza, con la conquista di un’isolata posizione etica, civile e politica, come ulteriormente dimostrano le pagine di Diario romano, in cui traspare la totale indipendenza dello scrittore dal fervoroso clima dei dicotomici conformismi che individua in Brancati il vigile custode contro l’ubriacatura ideologica che aveva indotto lui e tanti altri intellettuali ad una istitutiva adesione alle contrapposte mitologie utopistiche e, conseguentemente, dichiarato avversario del sartriano intellettuale “engagé”.
Il tema politico e il tema erotico convivono nel già abbozzato Bell’Antonio (1949), dove, se il tema del gallismo è talmente ossessivo nel padre che, dopo aver avuto numerosi figli naturali, ormai settantenne, durante i bombardamenti va a morire in casa di una prostituta, quasi a voler testimoniare la “dignità” erotica del suo nome, è anche ossessivo nel figlio Antonio, in cui, però, la negata “felicità sessuale”, a causa della sua impotenza, genera malinconia.
I tre nuclei generativi della narrativa di Brancati, gallismo, politica e moralismo, risultano qui sviluppati in maniera omogenea, ed imprimono alla narrazione una singolare armonia dialogica.
Tuttavia, occorre osservare come il gallismo travalichi dal suo alveo semantico per simboleggiare l’equivalente sessuale del velleitarismo della politica fascista, dove vigore sessuale e arroganza risultano intrecciati saldamente in situazioni irridenti e situazioni grottesche, ironicamente controllate dalla moralità dello scrittore, distillata dal disgusto sofferto del perverso autoritarismo del regime. Che il gallismo erotico sia un pretesto per satireggiare il gallismo politico dei fascisti è dimostrato dall’episodio che si svolge nella pensione Eros, dove un alto gerarca invita alcuni amici (e lo stesso Antonio) a trascorrere una nottata da depravati, congiungendosi continuamente con tre donne.
Il romanzo ha come protagonista Antonio Magnano, un giovane affascinante, figlio di Alfio Magnano che, credendo il figlio erede delle sue doti di “gallo”, indugia a descrivere conquiste inesistenti del proprio rampollo con invenzioni surreali di avventure, consumate a Roma dove è stato anche amante della moglie di un ministro. Sotto la pseudo-aureola dell’irresistibile conquistatore, Antonio, tornato a Catania, viene offerto in matrimonio a Barbara Puglisi, figlia di un notaio ricchissimo. Dopo tre anni di unione, la coppia non ha figli, per cui nel paese si scatena un diluvio di pettegolezzi, fino a quando il notaio scopre che la figlia è ancora illibata, perché Antonio non è un “gallo”. Vulnerato nella sua erotica dignità, il padre della ragazza vuole annullare il matrimonio. Anche Alfio, padre di Antonio, è furente sentendosi offeso nell’onore e reagisce violentemente.
Per intercessione del vescovo e delle trame dei fascisti locali, il matrimonio viene annullato e Barbara può sposare l’arciricco Duca di Bronte. Dopo un breve soggiorno nella casa dei genitori, a cui rivela il segreto della sua impotenza, Antonio trova rifugio presso lo zio Ermengildo che considera la situazione con lo scettico distacco dell’intellettuale. Una notte del 1943, durante i bombardamenti, il padre, sopraffatto da un irrazionale furore, quasi a voler riscattare l’onore del figlio, anziché recarsi nel rifugio, va a morire, come si è detto, nella casa di una prostituta gridando: «Voglio che tutta Catania sappia che Alfio Magnano coi suoi settant’anni andava a puttane».
In realtà, Alfio, antifascista, è ammalato di gallismo, componente genetica nella mentalità fascista e la sua morte è espressione del suo fantasmagorico gallismo sessuale, metafora della fine della retorica, simulatrice del velleitarismo del regime.
Il Bell’Antonio è stato considerato il capolavoro di Brancati, non solo perché sotto il velo di un sottile umorismo, egli coglie il condizionamento psicologico del gallismo dei siciliani, ma anche perché la cultura dell’impotenza sessuale rispecchia il dramma che condanna l’uomo alla disperazione cosmica del vivere.
L’ultimo romanzo di Brancati Paolo il caldo è rimasto incompiuto per l’improvvisa morte dell’autore, avvenuta a Torino nel 1954, e pubblicato postumo nel 1955. Protagonista è Paolo Castorino, la cui storia si sviluppa in tre tempi, dipanantisi dalla sensualità alla lussuria.
Nella prima parte, il giovane Paolo a Catania si esercita all’amore con la serva Giovanna, con la quale continua il rapporto anche dopo che ella è allontanata da casa. Però la donna, sentendosi trascurata, decide di uccidersi, ma salvata in extremis, rimane prigioniera di una sorta di inguaribile ebetismo. La sua famiglia è composta dallo zio Edmondo, dotato di istintiva sensualità; Marietta, la madre di Paolo, che alla morte del marito cederà ai desideri del cognato Edmondo; il padre, una sorta di filosofo con sue personali teorie sulla felicità. Dopo la morte del padre, Paolo a Roma si abbandonerà alle incontrollate passioni amorose, rimanendo sempre insoddisfatto, continuando ad immaginare avventure surreali che non attenuano il suo oscillamento tra stanchezza e noia. Tornato a Catania, trova la madre divorata dall’odio e dal rancore. Tutto gli appare insensato e, per non diventare idiota, sposa Caterina, con cui vive un certo periodo di felicità, ma, a causa della progressiva freddezza della donna, si lascia travolgere dalle antiche perversioni. Abbandonato dalla moglie a Roma, egli rimane divorato dal disgusto per la lussuria e dal desiderio di liberarsi dalla libidine che continua a divorarlo. In Paolo il caldo soluzioni concrete all’assurdità della vita sarebbero potute essere o il suicidio o la stupidità. Il suicidio avrebbe potuto siglare la dimensione del buio, dopo gli improvvisi bagliori di un senso esistenziale che il protagonista non riesce a darsi. Prevale, invece, la stupidità che è, come sostiene Walter Pedullà, «annegamento del pensiero», «istupidimento di un uomo che ha rinunciato all’intelligenza dell’uomo che ha fallito. Non c’è più tempo per capire, è solo tempo di morire». L’umorismo e la comicità sembrano occultarsi e, in evidenza, rimane il fantasma della tragedia di un’esistenza assurda, dove ogni interruzione di fluenza narrativa o di vita preannuncia la visione di una morte, il pensiero di uccidere con la rinuncia a pensare e a capire la trasformazione in idiota di Paolo, di cui Brancati scrittore laicamente cerca di capire la sconfitta della ragione, nella confusa progressione della storia, che non riesce a risolvere i dilemmi delle contraddittorie ansie del naufragio sessuale o della catarsi dalla prigione della sensualità.
Lo stesso Brancati, due giorni prima di morire, dispose che il romanzo «si può pubblicare, avvertendo il lettore che mancano due capitoli, nei quali si sarebbe raccontato che la moglie non tornerà più da Paolo, ed egli, in successivi accessi di fantastica gelosia, si aggroviglierà sempre più in se stesso fino a sentire l’ora della stupidità sfiorargli il cervello».
La “conversione” e le opere
La cosiddetta “conversione” dalla iniziale adesione al fascismo al capovolgimento totale delle motivazioni che ne avevano ispirato la scelta, avvenne verso la fine degli anni Trenta, quando, entrato in amicizia con scrittori come Alvaro, Moravia, e Mario Pannunzio, inizia la collaborazione al settimanale “Omnibus”.
Già nelle sue lettere al direttore, si evidenzia una nuova ricerca nel gogoliano (italiano) cimitero delle “anime morte”, attraverso cui Brancati esplora la società beata della fine degli anni Trenta, ignara del futuro che marcisce in una sorta di edonismo sfrenato e in un clima di sopraffazione arrogante e di negazione di ogni forma di diritto e di legalità.
Allora, ripudiando dannunzianesimo e fascismo, lo scrittore tende a fare sparire tutte le opere pubblicate fino a Gli anni perduti (1934-38).
Come osserva Mario Pomilio, tale passaggio determinò non solo un mutamento di stile, ma anche di contenuti che diventeranno più emblematici e profondi, rappresentando il vero volto di una Sicilia autentica. Infatti con Don Giovanni in Sicilia, viene investigato in chiave farsesca l’esasperato erotismo negli ambienti medio-borghesi non solo siciliani, ma universali, che indossano una maschera pirandelliana, dalla quale non riescono a liberarsi. Con le opere successive Il Bell’Antonio e l’incompiuto Paolo il caldo, Brancati, già manifestatosi profondo conoscitore dell’animo umano nella sua attività di diarista su “Omnibus”, va evidenziando i suoi temi più sentiti, come l’ossessione per la donna e lo squallore morale di chi ha servito ogni regime.
Nei due romanzi, egli si libera di ogni laccio politico e ritrova la propria condizione caricaturale, transitata fino al disgusto esistenziale.
Se il gallismo domina ne Il Bell’Antonio (un protagonista ammirato dalle donne, ma in realtà impotente), tuttavia nel bel delineato quadro ambientale, esplode una sotterranea febbre di verità che, accanto alle vicende di Antonio, delinea la disgregazione civile e politica, che vede travolti nella catastrofe della guerra anche gli “eroi visibili”, i romani fascisti, inizialmente esaltati.
La nuova linea narrativa brancatiana si evolve verso atmosfere funeree in Paolo il caldo, dove il rancore dello scrittore verso la parte rinnegata della sua produzione tramite il precedente fanatismo del sesso, corrisponde simbolicamente alla mitologia di onnipotenza del regime, al sentimento di paura della morte che spegne ogni sensualità nell’angoscia dell’incompiuta catarsi, dove Moravia ha individuato la direzione del nuovo corso della letteratura brancatiana, in cui riecheggiano Stendhal e Proust.
Dissoltosi l’elemento grottesco, appare ora un tipo di indagine tesa a frugare nell’interno dell’io e a scoprirne il sottofondo di amarezza.
Nell’avventura romana di Paolo Castorini, dopo gli intermezzi erotico-sessuali e le velleità letterarie, Paolo avverte l’insofferenza morale verso una società che ha promosso l’ipocrisia a strumento di verità nei rapporti interpersonali e sociali.
La crisi latente nel personaggio esplode, quando Paolo ritorna in Sicilia per la malattia del padre, che si conclude con il suicidio. Ora il disfacimento della famiglia e l’inarrestabile degradazione quotidiana denudano la disperazione interiore di Paolo che non riesce più a porre argini al peccato e alla morte.
Anche la prosa ha subito un certo mutamento e, con procedimenti sintattici più fluidi, riesce a riequilibrare le eccessive ridondanze del dialogo, mentre una certa inusitata tenerezza riesce a sconfessare sia la preponderanza verghiana, che il parodismo pirandelliano e, con il passaggio dal coefficiente della forza all’esplosione della tragedia, evidenzia più nettamente una sorta di rivolta e di rinnovamento della nostra narrativa, riuscendo a configurare splendidamente le note di tenerezza e le accattivanti orchestrazioni sintattiche.
I protagonisti maschili delle opere di Brancati, mescolati in condizioni di passività, falsa aggressività, erotismo, fatalismo e dolcezza, oltre a rappresentare l’alienante follia di una società, quella siciliana durante il fascismo, interpretano la metafora della società italiana, in cui affiora la categoria degli “inetti” che già, come si è detto, con Svevo erano apparsi sulla scena della letteratura.
A differenza degli altri prototipi, gli inetti di Brancati vivono un tem-
po morto della storia, non intraprendono alcuna iniziativa, prolungano il vuoto del loro esistere, consumando le giornate in gesti maniacali e conversazioni futili, la loro vitalità si esprime nel dongiovannismo, che è stato dipinto da Sciascia, come un modo ossessivo di pensare la donna, fino all’assottigliamento del desiderio, in un clima di mistificazione e di ipocrisia.
Contro tutto ciò, si contrappone il moralismo illuministico di Brancati che affonda la sua lama nelle piaghe incancrenite di un provincialismo decadente e, perciò, rivela l’autore come nuovo nella produzione letteraria degli anni Trenta-Cinquanta, rimanendo estraneo sia alle «solariane capzioni memoriali, sia alle suggestioni del Realismo e del Neorealismo».
Un particolare significato rivelano gli scritti giornalistici e di costume di Brancati, attraversati da un umorismo sarcastico ed espresso attraverso comportamenti estraniati e forme di comunicazione, in cui si riflette una genetica inquietudine autobiografica che rappresenta la inconscia premonizione di un animo poco incline all’irregimentazione duratura in schemi politici e razionali fissi.
Tali oscillazioni interiori costituiscono il nucleo sotterraneo di un nomadismo coscienziale che presto sarebbe esploso nel rifiuto e nella condanna del regime e nella conseguente afflizione sotterranea che lo scrittore tenterà di terapizzare con una sempre più grottesca rappresentazione di trame di vita e di solitudine interiore dei suoi personaggi, avvolti nel clima ossessivo del fascismo o nella “noia” e nell’alienazione che invade i territori segreti dell’anima, tra le ottusaggini burocratiche e i veleni dell’intolleranza.
Nell’ottica di una insoddisfazione latente e di un successivo percorso esistenziale di chiarificazione e di svolte vanno letti i testi iniziali, raccolti nel 1946 nel volume I piaceri. Parole all’orecchio, quelli già citati di Diario romano e i racconti de Il gatto con gli stivali.
Lo spirito corrosivo si avverte anche nelle opere teatrali, dove prevalgono gli umori, i veleni, le deformazioni, le tendenze ossessive e maniacali delle comunità borghesi siciliane. Vanno ricordati: Questo matrimonio si deve fare (1938), Le trombe di Eustachio (1942) e Don Giovanni involontario (1943) che riprende i temi del Don Giovanni in Sicilia, dominati da atteggiamenti farseschi e deformazioni comportamentali, in cui la “noia” e l’inquietudine dello scrittore si sono trasformati in dramma dell’anima, nascendo dalla maschera del grottesco e dell’irrazionale, testimonianza del dolore sotterraneo dello scrittore, che evade dagli orrori della società e dagli inconsci labirinti della vita, attraverso l’antidoto della letteratura.
Carmelo Aliberti