Per il Suo 78° compleanno
OMAGGIO AL GRANDE SCRITTORE TRIESTINO CLAUDIO MAGRIS
DI CARMELO ALIBERTI
CLAUDIO MAGRIS
–NON LUOGO A PROCEDERE–LEI DUNQUE CAPIRA’–MICROCOSMI.
Nato a Trieste il 10 aprile 1939, scrittore, germanista è uno dei maggiori studiosi delle letterature mitteleuropee. Insegna lingua e letteratura tedesca all’Università di Trieste. Molti i suoi studi e scritti di argomento disciplinare e la sua tesi di laurea, intitolata:” Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, poi pubblicata da Einaudi. Tra i suoi libri di maggiore successo di pubblico, Danubio (1986), scritto quasi tutto al tavolo del caffè di Tommaseo di Trieste, “Microcosmi”(1997), Premio Strega. Tra le altre pubblicazioni: “Ti devo tanto di ciò che sono. Carteggio con Biagio Marin (2014. L’autore ci informa di usare la penna, che segue sempre il flusso del pensiero e passa attraverso la mano con armonia. Scrivere al computer è invece come strappare una parola alla volta al pensiero, senza pensare a ciò che deve dire dopo. I suoi nonni sono morti prima della sua nascita. Il primo nonno, una specie di figura di filosofo e matematico che aveva sognato di elaborare un sistema che avrebbe risolto ogni problema con esattezza matematica, senza alcun risultato, per cui morì in una crescente malinconia. L’altro nonno, Sebastiano Magris, nato a Malnisio di Pordenone, arrivò a Trieste e svolse prima l’attività di operaio e poi l’impiegato. Il primo libro letto è stato “I misteri della giungla nera” di Salgari, De Foe, i lirici greci e cinesi. All’Università di Torino, dove si laureò nel 1962, alla scuola di maestri, come getto. Ha pubblicato il suo primo libro all’età di 24 anni ed ebbe la gioia di vederlo recensito sul Corriere della sera. Aveva una vocazione cinematografica e se il prof. Getto non lo avesse chiamato all’Università di Torino, avrebbe frequentato il Centro sperimentale di Roma I romanzi di Magris sono realizzati mediante due linee necessarie: la prima è l’interesse per un personaggio, una storia, che a volte è consapevole a volte latente; il secondo elemento riguarda di solito un’occasione spicciola che fa da levatrice. La piccola idea subisce una lunga gestazione durante la quale lo scrittore prende appunti, annotazioni volanti dove gli capita, fino a quando scatta un clic e sembra che tutto si coaguli intorno a qualcosa, descritta con un andamento frettoloso e ruvido, ma poi lo scrittore si concede una pausa, a cui segue una più raffinata riscrittura e quindi il controllo finale. Gli affilati articoli sui costumi corrosi della società italiana plasmarono tanta opinione pubblica, rifiutando la lezione morale ex cattedra, ma parlando con equilibrio e ragionevolezza ai lettori, sulla grave situazione italiana, senza ricorrere a blateranti invettive contro l’avversario politico, ma riproponendo il codice della razionalità e dell’umano confronto. Allora lo convinsero a scendere nell’agone politico, con la segreta illusione di poter contribuire a risolvere gli incandescenti e invisibili problemi che torturavano l’Italia. E dal 1994 al 1996 fu senatore eletto nella lista di centrosinistra “Trieste”. La sua presenza in Parlamento fu appena percepita, tanto che Corrrado Staiano, nel suo libro dedicato al senatore, faceva osservare che Magris stava seduto sugli spalti lassù, come in castigo. Avrebbe voluto fare qualcosa di utile per il suo paese, ma capì subito che la zavorra, incapace e corrotta e priva del senso dello stato, particolarmente allagato da un’incommensurabile corruzione, con stomachevoli scandali, voti di scambio, appalti truccati, i grossi interessi oggetto di lottizzazione e di scontri per mazzette, l’assenza totale di interesse verso la straziante condizione di vita, maturarono in lui l’idea di un Parlamento, non gestore ideale di una comunità da costruire sul binario della legalità e sul diritto, ma un pietoso luogo commerciale, una accozzaglia di avventurieri convergenti e complici nelle operazioni di razzie a volto scoperto, consapevoli di sentirsi protetti vicendevolmente e, perciò, di rimanere impuniti. I festini, a base di sesso, droga e vituperevoli commistioni sessuale, in cui l’organizzazione maldestra delle agenzie del sesso, come quella di Lele Mora e di altre minori, era perfetta nel fornire le più belle ragazze per tali orge, indecenti per un uomo scelto dal popolo o (dal padrone di partito), ma scatenò una campagna di stampa senza alcuna clemenza, ma pubblicando foto scandalose che riproducevano il contorcimento dei corpi nudi in ammucchiata sul letto e gli amori orali preferiti da alcuni altri sadici protagonisti. I vari processi in diversi tribunali d’Italia danno la misura dell’estensione nota o poco nota della degenerazione politica italiana, grondante di rapina del denaro pubblico, attraverso il codice di assegnazione degli appalti assegnati per nomina agli spregiudicati servi del padrone politico, che iniziavano i lavori di un’opera che rimaneva incompleta per poter ottenere perizie successive e nuovi assegnazioni di fondi, per cui molti spettri edilizi si scorgono in quasi tutto il territorio nazionale come mostri ripugnanti. A tanto sperpero pagato sempre dai ceti medio-bassi di cittadini ridotti in povertà per una iniqua tassazione, a carico sempre dai lavoratori dipendenti, catturati con il cappio dei cedolini del salario, mentre i governi di destra e di sinistra si abituarono a scavare risorse solo in basso, senza vedere, quasi per paura, i superpaperoni condurre una vita afrodisiaca A tale razzia delle finanze pubbliche, spudoratamente esibite sui giornali, si aggiungevano matasse infinite di truffe, rapine e inganni in tutti i settori della vita pubblica, mentre i giudici spesso rimanevano delusi per le loro sentenze, stravolte nei successivi gradi di giudizio o per le manipolazione delle prove, o per la scomparsa dei fascicoli sottratti agli scaffali cariati dei Tribunali o per le scadenze dei termini in cui il processo sarebbe dovuto celebrarsi. Tutto ciò e altre squallide storie del potere dovettero perforare il mondo interiore del docente che si ritirò dal Parlamento con una forte depressione durata a lungo. Nel 1998 esce “Microcosmi(Garzanti, Milano) alla fine di un Millennio tormentato dalla follia autodistruttiva che sconvolge etnie e frontiere nel cuore dei Balcani, rendendosi indilazionabile l’urgenza di ridisegnare i confini delle popolazioni slave, dalle diverse radici etniche e rinchiuse nella diversità di usi, costumi, tradizioni, lingue e religiose, che solo il dittatore Tito era riuscito a mantenere pacificamente insieme, sia con metodi repressive, che con il miglioramento economico dell’intera Jugoslavia, ammorbidì le ire di gruppi etnici e religiosi in continui espressioni di malcontento, garantendo ai popoli slavi un lungo periodo di pace e di serenità economica, inaugurando intelligentemente la strategia del doppio binario o della flessibilità pragmatica, senza schieramento politico fisso, per poter meglio dialogare e ottenere aiuti economici sia con L’URSS, sia con i paesi occidentali. Per garantire la pace in un’area europea sempre turbolente, si cercò di delineare una nuova mappatura degli insediamenti di tante etnie. Le grandi potenze coinvolte nel conflitto cercarono di esaudire la richiesta dei confini dei popoli, riconoscendo anche il principio dell’autodeterminazione della gente slava. Magris, uomo di confine, al dilagare della ferocia fratricida vive impotente sentimenti di incontenibile orrore. Nel fumo delle bombe, dei cannoni, dei carri armati, dei veicoli che attraversano e oscurano il cielo, Magris rivive dentro di sè i ricordi di paesaggi, le emozioni più intense e penetranti visioni, come le aeree visioni dei tuffi nell’acqua cristallina della Croazia ogni giorno, ogni anno, come un rituale incrollabile, come lo sgranarsi di un rosario senza fine. Il libro è il racconto di una serie di microviaggi endocosmiche ed esocosmiche, che potrebbero sembrare insignificanti, ma che possono presentarsi come una pietra preziosa, apparentemente unica massa microcosmica, che sembrerebbe un oggetto insignificante, ma che potrebbe contenere mille sfaccettature di realtà, apparentemente insignificanti, ma ricco di elementi preziosi, che, con il supporto dell’intelligenza e con la sensibilità di un uomo, come lo scrittore, riesce a rivelare miliardi di cause ed effetti, ma che rendono indimenticabili avventure più banali. Il viaggio del pensiero di Magris è in realtà, un periplo ideale compiuto dallo scrittore seduto al caffè S. Marco, (costruito nel gennaio del 1914, osteggiato dal repressivo militarismo asburgico e, divenuto sede delle riunioni irredentiste, abbattuto dagli austriaci nel 1915, riedificato negli anni ‘3o, ) divenne osservatorio speciale a lui caro, come luogo reale delle sue elaborazioni creative, sede regale di sollievo e di emozioni sentimentali, rifugio e conforto dallo squallore della vita di tanti poveri vagabondi senza casa, al Caffè Trieste, alla Chiesa si trasforma in una misteriosa avventura, ricca di piccole, impensabili e subliminali scoperte, che schiudono lo sguardo sulle abbaglianti e meraviglie invisibili della città, della natura e della vita di tutte le cose. In Microcosmi, Magris esprime la sua filosofia della vita: viaggiare è come raccontare-come vivere-è tralasciare una semplice causalità che porta da una riva all’altra. La creatività di Magris si dilata da un confine all’altro, traboccante di racconti, di confidenze del viaggiatore navigato. Il peccato originale introduce la morte, che prende possesso della vita, la fa sentire insopportabile in ogni ora che arreca il suo trascorrere e costringe a distruggere il tempo della vita e farlo passare presto come una malattia e ammazzare il tempo è una forma educata di suicidio. Così i luoghi del tempo che annegano se stessi, così lo scrittore desta il tempo della storia e scopre il pulsare della vita dentro l’arcipelago apparentemente statico del reale e intuire in quelle trame invisibili di vita, una “vis” vitale che alimenta segretamente ogni forma di esistere, in cui scorre il mistero del cosmo. Il concetto del nomadismo dell’anima, della storia e della memoria, risulta più storicamente visibile in “Danubio”, il grande fiume che congiunge il Mar Nero, al Mar del Nord, dividendo in due parti il Vecchio Continente, e il romanzo omonimo, per la struttura instabile ideata dallo scrittore, per poter dare spazio alla molteplicità dei popoli e alle continue guerre che l’hanno squassato, l’espansione indefinita narrativamente e la libertà dello stile, il testo non può essere classificato nè come saggio, nè come romanzo. Nella stravagante passeggiata della memoria stocico-culturale emergono luoghi, personaggi e storie, come la principessa Sissi, Heidegger, Celine, sono rappresentati e letti con brevi e orribili parole nella banalità del “male assoluto”, il vecchio Kafka e il giovane Kavafis. L’inquieto divagare nella vastità della storia dei popoli e altri personaggi e paesaggi, apparentemente fluttuanti e lontani, non obbediscono ad un mescolamento disordinato degli elementi, ma risulta frutto di un progetto, in cui la ragione vuole riagganciare con un filo storico credibile, la capacità dello scrittore di coniugare osservazione e struttura, nel fluttuare delle acque, ancora rosse di sangue sparso tra le due realtà europee, quella nell’orbita della dittatura dell’URSS ad Est e quella Occidentale, a cui erano legati gli stati occidentali di ispirazione democratica. struttura in rivolgimento come gli avvenimenti che ne sconvolsero le acque, sempre in mugugnante attesa di un poetico riabbraccio di una identità umana e il sogno di una generale architettura in cui far convivere pacificamente ed educare al rispetto delle idee altrui, per poter gustare la suprema verità dell’esistere. La mancanza di punteggiatura, con brevi periodi descrittivi, ma la verità profonda delle ragioni storiche riesce ad emergere a tratti. a sussurri di trascendenza e di infinito. Danubio, quindi, non è nemmeno un libro di viaggi nell’universo dell’inconoscibilità, ma nel codice dell’equilibrio tra cuore e ragione, la visione di una cultura cosmica plurilingue, impregnata di pietas per i destini futuri degli sviluppi della storia umana.
Claudio Magris ora torna in libreria con un sorprendente romanzo, intitolato ” Non luogo a procedere” (Garzanti, 2016). In questo romanzo, lo scrittore si distacca dalle consuete e personali tematiche complesse, come in DANUBIO, risultato intricate operazioni di osservazione di un frammento sconosciuto della storia e, sulle suggestioni scaturite da parvenze di eventi riscoperti, ricostruisce realisticamente, sulla scia di un consunto frammento memoriale di una indistinta eco, mormorante tra il riflusso dei marosi, squarci di incantevole paesaggio, che rimandano ad esplorare i successivi coaguli della storia. Sembrano magicamente emergere dalle mormoranti acque rumorose del Danubio le voci sommerse di storie rumorose nel tempo, da cui emergono mormorii di eventi sconosciuti, ma riannidate nel loro svolgersi dagli affilati strumenti storici, trascinano l’appassionata sensibilità e l’eccellente scrittura di Magris a trasformare il fascino di una storia perduta in racconto poetico che illumina personaggi, eroi e filosofi in una luce di attualità concettuale. Ma dalla rete delle percezioni sembra scorrere tra le vaste sponde del fiume, un lungo periodo instabile di lotte e di civiltà, accomunate da lotte che insanguinarono il Danubio, ma che riuscirono alla fine a trasformarsi in lembo storico determinante dei confronti di scambio con l’Europa Occidentale, in cui rimbalza il fascino storico surreale dell’emblema dell’impero Asburgico e le litigiose e sfilacciate nazioni occidentali disperse in microbiche ambizioni di timido collegamento. Il protagonista del nuovo romanzo di Magris si confronta con l’ossessione della guerra di ogni epoca e di ogni paese, del sangue indistinguibile “dallo stesso colore dell’uomo e della stessa vita, grigia come il fumo dei corpi bruciati nel forno crematorio della Risiera di San Sabba”, racconta la sempre più febbrile ossessione di un uomo che per decenni colleziona armi, fucili, mitraglie, cannoni, aerei e divise militari, senza stancarsi mai, possiede un U-Boot della Marina imperialregia, ma vorrebbe l’elmetto tedesco che aveva in testa Mussolini quando fu catturato dai partigiani a Dongo, desidererebbe un T-34, il carro armato che con il suo cannone da 76, 2 millimetri salvò la Grande Madre Russia, quando Hitler l’attaccò a sorpresa nel 1941. È un archivista della guerra, non perché ami i suoi orrori, ma, al contrario, perché costruire a Trieste un grande Museo della guerra, sia un potente modo per ricordarlo e provare a guardarlo con ripugnanza e terrore, affinché l’uomo si impegni a ricostruire in nome della pace. Certamente, per poter penetrare profondamente in tutte le pieghe eccentriche di lacerti episodici intrecciati a brandelli, in cui lo scrittore sembra oscurato da dolorose vicende o dalla lacerazione fisica e morale, dietro le cui quinte si percepisce tutta l’ira e il tormento quotidiano accumulati per decenni dalla candida anima di una creatura angelica, occorre avere dimestichezza con la tecnica narrativa del “flusso di coscienza”, inaugurata da Joyce e che ha avuto pochi seguaci, come Giuseppe Berto, nel suo “Male Oscuro”, In Magris domina il flusso inconcluso e indecifrabile di nuclei essenziali di episodi e personaggi che si rincorrono di pagina in pagina, incatenate da legami indistruttibili tesi a cancellare e distruggere le orribili orme della ripugnante visione e riflessione sulle orrorose azioni dell’uomo, quando i mostri interiori confliggono nella brace sempre lingueggiante del fuoco. Il Museo grottesco esprime la condanna della guerra per innestare nell’uomo, travolto dalle proprie maniacali ambizioni, sataniche o illusoriamente edeniche, un seme diverso di vita, per toter trasformare le febbrili ambizioni di sopraffazione e di potere e far sentire gli uomini fratelli d’amore. Il vecchio educatore, che è stato educatore di pace e di sani sentimenti, compreso l’odio per le catene di guerre nel tempo e le mostruosità del martirio nella propria terra, non può facilmente rassegnarsi alla morte di tutto, non può non percepire la catastrofe incombente sulla stessa vita. Il disperato sogno dell’archivista, purtroppo, non può essere coltivato dai cultori di opposte convinzioni che provvedono a concertare il progetto di bruciare la capanna del professore per poter continuare indisturbati la infuocata catena di morte. Si salvano dall’incendio della capanna e dall’incenerimento dell’uomo, solo i taccuini su cui il professore aveva trascritto in nomi, i cognomi e qualche balbettio di parole d’amore indirizzate ai propri cari, che i nazifascisti avevano frettolosamente provveduto a coprire con la calce, ma che il collezionista era riuscito a ricostruire nei suoi appunti, che, tramite la madre di Luisa, frutto di una mescolanza etnica per rendere più fedele alla verità la storia, arrivano alla figlia Luisa che doveva lavorare per la trasformazione della Risiera in Museo. Grazie al taccuino, Luisa progetta di collocare nelle 17 stanze del lager reperti e personaggi di un progressivo orrore, un messaggio ancora vivo di pace per i visitatori del Museo. Nel romanzo, invaso da violenze, da barbare passioni, da crudeli eccidi ingiustificati, attraverso cui si manifesta il seme naturale della ferocia diretta dalla devastazione radicale, ma la parallela spinta vitale che è alla radice di ogni realtà comprensibile o incomprensibili, è destinata a sopravvivere in diverse forme, per cui le memorie del professore riescono a far iniziare un processo per accertare le colpe e applicare le relative condanne ai responsabili dei traditori, dei delatori, delle insospettabili spie, dei voltagabbana, dei potenti, che vogliono non perdere il loro ruolo di privilegiati, che, volendo non perdere la loro privilegiata condizione, sono disposti ad ogni orribile crimine. Dopo tanti anni, i potenti ricchi della città e i nuovi gaudenti dei privilegi, ora lo scrittore li vede sfrecciare soddisfatti per le vie di Trieste e, in uno dei tanti assalti del senso di colpa per vedere impuniti i criminali che hanno mandato ad essere bruciati vivi i compagni di un tempo, in una crisi d’ira sembra balbettare davanti al crocifisso di una chiesa, in cui inconsapevolmente si è trovato, balbetta amaramente parole incomprensibili. L’uomo, un professore, è veramente esistito, viveva in un capannone gremito dei suoi ordigni, dormiva in una lunga bara, morì nel 1974 in un rogo misterioso che distrusse buona parte dei suoi cimeli. Nonostante i processi, non si seppe mai la verità. Sparirono anche i suoi preziosi taccuini su cui aveva annotato fatti e misfatti, tra l’altro le scritte che i morituri avevano lasciato sui muri della Risiera di San Sabba, l’unico lager nazista in Italia dove, in una vecchia fabbrica rossastra e nerastra alla periferia di Trieste, funzionò, tra il 1943 e il 1945, un forno crematorio, dove furono gasati con il Zyklon B migliaia di partigiani italiani e jugoslavi, ebrei, antifascisti e molti altri furono torturati, sgozzati, uccisi a colpi di mazza sulla nuca. Le scritte dei deportati sulle pareti degli stanzoni della Risiera e sui muri delle 17 celle furono poi cancellate, calcificate, ma il professore (Diego de Henriquez) le aveva ricopiate – sui taccuini scomparsi – in dialetto, in italiano, in sloveno, testimonianze delle ultime ore dei prigionieri. Tra quei graffiti potevano esserci anche i nomi delle spie, dei traditori, dei doppiogiochisti, dei profittatori che li avevano denunciati e fatti condannare a morte. Il mister non ha mai avuto risposta. A Claudio Magris quella storia deve essere rimasta da sempre incisa nel cuore. Il suo romanzo prova nel profondo come la realtà sia creatrice: è un poema epico, politico, religioso, poetico, nutrito di tormento, di dolore, di spirito d’avventura, di morte. Una sorta di giudizio universale. Non è un libro verità, ma un romanzo, ma un documento di alta letteratura che fa sembrare ancora più mediocri i tanti romanzi che affollano gli scaffali delle librerie abbandonati alla corrosione del tempo, perché, oggi più che mai, in un momento di gravissima crisi economica mondiale, pochi si possono concedere l’acquisto di un libro. Il libro di Magris, unico nella sua struttura, senza simili modelli precedenti, si legge con la voglia di sapere alla fine di ogni pagina quel che accade dopo. Sul nucleo di base, si incrostano un’infinità di romanzi, racconti, storie che divergono nelle vicende dei personaggi e che poi si ricompongono in unità concettuale e strutturale con una convergenza di stile. Come ogni romanzo storico è popolato anche da personaggi d’invenzione, la bella color ebano, «la più rara e preziosa delle perle», e uomini in carne e ossa: il vescovo Santin, fatto rivivere in un mirabile ritratto, le SS delle polizie naziste – Sicherheitsdienst, Sonderkommando -, il soldato Otto Schimek e la difficile ricerca della verità e don Edoardo Marzani, torturato a San Sabba, scampato alla ciminiera, che, libero, diede il segnale dell’insurrezione facendo suonare tutte le campane della città. Il romanzo – costato al suo autore la fatica di anni – ha per protagonista, anzitutto, il lui senza nome, «un imbarazzante maniaco o un arcangelo della giustizia e anche della vendetta», e poi Luisa, il controcanto di grande fascino. È la giovane donna che riceve l’incarico di elaborare il progetto del Museo, il grande Museo, simbolo e baluardo del mondo offeso. Con lei sua madre Sara, l’ebrea triestina che non riesce a cancellare il rimorso di essere sopravvissuta alla Shoah, e il padre, il sergente afroamericano Brooks, arrivato a Trieste con la 92ª Divisione di fanteria di soldati neri che, salvatosi dalla ferocia della guerra, morirà in un banale incidente sulla pista dell’aeroporto di Aviano. «Il volto del padre poteva rivelare una tristezza ancora più profonda, più antica: una storia anch’essa di schiavitù in Egitto e di cattività babilonese, di Galuth, di esilio, che risaliva ai tempi remoti e si dilatava in spazi non meno vasti di quelli in cui i figli di Israele si erano sparsi per tutta la terra. Luisa ha il compito di dare un ordine ai materiali informi, alla babele di oggetti ammucchiati, dai carri armati alle sciabole alle giberne ai libri degli scienziati della guerra, Sun Tzu, Raimondo Montecuccoli, Carl von Clausewitz, Mao Zedong, Giap. Non è un’impresa facile.
Nella sala n. 8 pensa di collocare un cassone che contiene le marmitte per le cucine da campo: «Mangiare carne, palpare carne, macellare carne. Non si fa economia di carne ai festini della morte». Nella sala n. 11 pensa di collocare la mitraglietta Saint-Étienne, mod. 1907, cartucce da otto millimetri: «Gli ufficiali che ordinano di puntare la mitragliatrice non hanno occhi per i soldati che se la caricano in spalla, la sistemano, puzzano e crepano in trincea».
Nella sala n. 22, la più grande, pensa di collocare un obice da 305/17, 33, 8 tonnellate, usato a Caporetto, poi dal generale Franco in Spagna e, di nuovo, nella Seconda guerra mondiale: «Mostra una specie di enorme sella, sella gigante di un cavaliere dell’Apocalisse, colossale ma goffo bersaglio di morte più che sterminatore».
Il museo immaginario diventa un libro stampato, le sale sono i capitoli della vita e della morte. Magris parte sempre da un punto, poi cala negli inferi della memoria e racconta brandelli di storia patria e universale. Dall’attentato a Reinhard Heydrich, uno dei pianificatori della soluzione finale, giustiziato dai paracadutisti cechi nel 1942 a Praga, alla strage di Lidice ordinata da Hitler per rappresaglia; dalla mazza di legno degli Zapote (III secolo d. C. ), la Macuahuitl, in uso presso gli Aztechi, a San Juan de Puerto Rico ai Conquistadores, agli arrembaggi, ai naufragi, ai tesori, alle canzoni creole; dalle scarpe del partigiano titino abbandonate su un marciapiedi – «una bandiera, la bandiera del vincitore, assai più di quel pomposo vessillo che poco più tardi, mitra alla mano, i titini imporranno sulle finestre del municipio» – al berretto con la stella rossa di un partigiano del IX Corpus raccolto in via Rossetti, agli spari di tutti contro tutti nell’aprile 1945. I titini disarmano i partigiani italiani, i comunisti sparano sugli antifascisti del Cln, i nazisti, nel momento di andarsene, fucilano 11 italiani per rappresaglia. Un inferno di morte, altro che la libertà sognata. La storia per Claudio Magris non è di certo maestra di vita: «La Storia è una crosta di sul treno della Storia ha un alito cattivo»; «La Storia è una discarica di rifiuti»; «La Storia è un elettroshock»; «Quanti miliardi di miliardi di cellule e di connessioni ha la Storia? “Per la sua estensione”, dice il referto della risonanza, “il tumore è giudicato inoperabile”»; «Tutta la Storia umana è un raschiamento della coscienza e soprattutto della coscienza di ciò che sparisce».
Ma la Risiera di San Sabba, è «prova generale dell’inferno», a pesare nel cuore più segreto di questo libro, ombra tossica, cappa di piombo, di fuoco e di morte. Quel fumo del camino non ha smesso di intossicare il mondo. Claudio Magris ha scritto grottesche pagine su una festa al Castello di Miramare dalle bianche torri il 20 aprile 1945, alla vigilia della fine di quel che allora inquinò il mondo. Sta per sgretolarsi tutto, ma il supremo commissario del Litorale Adriatico, il gauleiter Friedrich Rainer, apre il suo ricevimento urlando contro la Slavia rossa, e levando il bicchiere alla salute del Führer che ha pochi giorni di vita. Plaudono generali cosacchi, cetnico-serbi, transfughi in nome della lotta contro il bolscevismo. E con loro alzano gli ultimi calici tedeschi, croati, sloveni. Una tragedia mascherata. Gli italiani, poi, il prefetto Coceani, il federale Sambo che parla servilmente in tedesco, gli armatori, i costruttori, gli assicuratori, il vicepresidente degli industriali che legge un caloroso messaggio alla grande Germania del presidente. I vantaggi non sono mancati neppure in quegli anni foschi. Sieg Heil. Dopo il pranzo, nella sala delle udienze, gli ospiti lasciano le tavole imbandite, gli ufficiali con le giubbe sbottonate, i borghesi con la faccia resa lucida dai brindisi. Vanno su e giù per il Castello, la Sala della rosa dei venti, la Sala dei gabbiani, la Sala del trono dove l’arciduca Massimiliano non fece in tempo a sedere. E poi nel parco, a passeggiare tra le araucarie, le azalee e i ginko biloba, canticchiando in tedesco «La Paloma», strofinandosi a vezzose signore accanto alla copia della Venere di Milo. Il fumo intanto seguitava a uscire dal camino della Risiera, vicino allo stadio. «Avvoltoi e iene di tutto il mondo unitevi, ignari di essere invece carogne e carcasse il cui fetore sta già richiamando i necrofori», scrive Magris.
A Trieste dopo la guerra non si parlò di quel che era accaduto nella Risiera di San Sabba. Anni di silenzio, di rimozione. I nazisti se ne andarono e si rifecero la vita con pochi danni, i repubblichini ancor meno, qualcuno prese persino la medaglia al valore. I collaborazionisti, i doppiogiochisti, i responsabili delle spiate, i signori della città, anche non collusi con i nazifascisti, stettero zitti come i loro colleghi che avevano tratto sinistri guadagni nei traffici di quegli anni.
I processi furono insufficienti, mancò la pressione e la forza di un’opinione pubblica consapevole. Non luogo a procedere sembra davvero la voce della giustizia mancata, il debito che una comunità paga dopo più di settant’anni, il grido del bambino innocente di allora, diventato un grande scrittore, che invita a non dimenticare quel mondo corrotto e inconciliabile.
LEI DUNQUE CAPIRA’ (Garzanti, Milano)
Tra i molti romanzi, saggi e testi teatrali, che lo hanno imposto all’attenzione della migliore critica italiana e internazionale, come uno dei maggiori scrittori contemporanei, originale per le scelte tematiche, espresse con un linguaggio raffinato ed eletto e mediante una organizzazione strutturale inedita, avviata con leggerezza di impianto, ma con una progressione architettonica che veleggia verso atomi di vicende, rappresentative di storie umane ed espressive, condensate in frammenti verbali, unite da un filo conduttore invisibile nel trasparente azzurro dei raggruppamenti fonetici, ma con l’estrapolazione spontanea del ricevente, quanto dalla fruizione chiara alla fine del ritaglio raffinato delle informazioni prima poco note, ma rese fruibili dall’esegesi storico-letteraria e talvolta mitica, che con la selezione di un linguaggio prezioso e cooptante, tanto da riuscire a penetrare nel cuore come una dolce e calda chiarezza. Anche in questo esile, ma di elevatissima caratura concettuale e stilistica, che ora opta per una modalità di scrittura poetica, vibrante di inquiete emozioni che promuovono il testo a un irrepetibile e intenso documento lirico, scandito da un’operazione creativa, articolato in racconto-monologo che ha come protagonista una voce senza nome, o meglio da due personaggi fusi in un solo soliloquio che ingloba nella sua scansione il doloroso silenzio dell’interlocutore astratto che si fonde con il pensiero, le osservazioni, i sentimenti, le cadute interiori, la gelida solitudine che imprigiona lo scrittore, dopo l’isolamento di lei in una casa di riposo o di cura per poter usufruire di adeguate cure per una infezione persistente che fuori la tormentava brutalmente. Il pubblico che ascolta le rivelazioni della donna angosciata per aver lasciato solo il suo uomo-poeta, legata a lui come una invisibile Musa che lo ha sorretto nei segreti turbamenti del parto creativo, si rivela un Presidente anonimo e invisibile nelle stanze cavernose invase dall’ombra, popolata da creature infelici affidate alla cura di mani pietose, dove è impossibile accedere per non provocare turbamenti nei “reclusi” coatti. Lei è afflitta anche dall’inarrestabile angoscia di non poter proteggere il suo poeta nell’impervio sentiero della attività creativa, pronta ad intercettare e ispirare lo scioglimento del dubbio sulla scelta più adatta alla sillaba ingorgata nella gola, allo squarcio di immagine non subito individuata, che intercettava prima del gemito e agghindata di una incantevole bellezza, che si librava dalle labbra con un soddisfatto sorriso di essere riuscito alla brillante formulazione della figura poetica, che gli conquistò l’alloro poetico. Ora che è lontana, la sua angoscia si incrementa, perché Lei è consapevole della incapacità di lui ad affrontare le incombenze quotidiane, le storture di una vita smarrito nella onnivora vita della città, dove uomini e donne sospingono carrozzelle con bambini piangenti, disabili inchiodati su carrozzelle, protetti da una amica, vecchi anchilosati che barcollano ubriachi e ignorati dai gelidi passanti, giovani madri dal viso smunto aggrappati alla scolorita gonna della madre, signore blateranti parole senza senso con un inconsolabile dolore racchiuso tra le lacrime per i figli falciati dalla tossicodipendenza, barboni irriconoscibili nella loro dignità umana, affamate si tuffano nella poltiglia della spazzatura, ammucchiata nei maleodoranti bidoni accatastati davanti ai supermercati in cerca di cibo marcito, tra l’indifferenza di gente profumata dal fumo di sigaro dei signorotti, osservati con sguardo implorante degli extracomunitari che con sobrietà ed orgoglio non osano chiedere, ma mostrano libri della loro terra lontana, pronti ad offrirli a chi risponde con un cenno di sorriso, vecchie sdentate giacciono inzuppate sotto la pioggia sferzata dalla bora inginocchiate su un cencio di cartone, immobili come statue dignitose. La donna riferisce tutto ciò e altre fragilità del suo Orfeo, che non riuscirà da solo ad affrontare il peso della vita con tutti i suoi orrori, barbarie umane, egoismi, odi, lotte fratricide per il potere, assenza di ogni forma di pietà, vivere in un mondo sconvolto dalla follia umana. Lo scrittore, il poeta, l’artista, il musicista che hanno sempre coltivato il sogno di poter essere utili alla rinascita di una vita più pura, non possono sopportare a sostenere il peso del male del mondo. Come Montale, che riesce a superare le difficoltà della vita con il sostegno di Mosca, quando lei non c’è, non sorride più, ha timore delle guerre sempre incombenti ed è incapace di accettare più la vita, perché per lui c’è il vuoto ad ogni gradino, in cui potrà inciampare con imprevedibili conseguenze, ormai privo di ogni sostegno.
Anche l’amato scrittore anonimo, come indirettamente la donna suggerisce al Presidente, si sente solo e straziato da una società mostruosa e per poter resistere alle feroci aggressioni del male, vorrebbe scendere nell’Ade per poter recuperare alla sua vita, la sua protettrice Euridice, con cui poter recuperare la forza di vivere e di amare, come nei giorni vissuti felicemente nel grembo della sua Itaca. Vorrebbe conoscere tutti i segreti della Casa, il modo di vivere dei ricoverati, il segreto della vita e della morte, il segreto di tutto in quella Casa oscura come il mistero in cui ogni giorno l’uomo affonda. Come confessargli che quella Casa è lo specchio della vita che brulica e soffre fuori da quelle mura. Certamente Orfeo vorrebbe portarla fuori e interrogarla sul segreto che si nasconde dentro tanto buio, senza che nessuno sappia la sua identità, per poter innalzare un canto nuovo di agonia e di gioia per poterla avere di nuovo accanto. Euridice è già pronta dietro la porta ad uscire e poter ricordare la gioia di una passeggiata sulla loro isola in estate, ma improvvisamente dalle labbra di Euridice si libra la dolce risonanza del suo nome. A tal punto, Euridice svanisce trasportata leggera dal vento nelle ombre della sera, mentre Orfeo rimane impietrito, Lei è già lontana, felice di non aver svelato la meschinità e il dolore perenne e l’inestirpabile strazio della vita nella Casa, e di vederlo tornare alla vita, ignaro del nulla e ancora voglioso di felicità. Al contrario di quanto avviene nel classico mito di Orfeo, qui è la donna-Musa che salva il poeta dalla catastrofe della conoscenza, della ragione e dell’evanescenza dei sentimenti, restituendolo con la sua fuga e il suo sacrificio di amante, a riprendere il percorso della vita e la via della sua casa, dove erano stati felici e cantato insieme l’amore. La struttura del racconto risulta imperniata sulla progressione monologante che ha come protagonista una donna-simbolo, che nella realtà è identificabile in Marisa Madieri, la dolce compagna fedele dello scrittore, la cui ombra silente gli fu accanto nei momenti lieti, e nelle ore tormentose della scrittura, quando egli trasferiva sulla pagina le metamorfosi della vita. La donna ha verniciato di sogno e di bellezza, il percorso della sua esistenza, lo ha rincuorato nei labirinti del dubbio, nei mille inferni dei dilanianti incontri e scontri con le contraddizioni, gli inganni e il dolore della città terrestre. La donna-Musa, si unì a lui anche nella passione della scrittura, lasciandoci con “Verde acqua” e “La radura”, la soavità dei ricordi e dei sentimenti di un’adolescenza pura vissuta nel calore degli affetti, delle emozioni e delle motivazioni dell’esigenza di narrare il meglio del suo tabulato segreto interiore, accanto alla “vis inventiva” di Claudio. L’arte della parola letteraria unì i due nella nebulosa avventura della conquista di una scheggia del senso della vita, nell’abbaglio della proiezione dei segni sulla pagina bianca dell’ars poetica” L’occasione creativa sbocciò nello scrittore nelle quotidiane abitudini dell’approdo per una sosta allo storico Caffè S. Marco, dove, dopo il rituale caffè, trovava un ambiente di sobria quiete tra tanti studenti, seduti a studiare con gli occhi infossati nelle pagine dei libri, o una visita frequente agli ospiti della Casa di riposo di fronte, a pochi metri dal suo ovattato alveo di scrittura, dove gli improvvisi sbuffi della bora investivano e risvegliavano la graffiante “aggressione” creativa di un pulviscolo di immagini coagulate in episodi e personaggi di un universo multicolore, lenimento alla pena di vivere. Gli strumenti espressivi risultano ora spogliati di ogni elemento decorativo e di orpelli ornamentali, di narcisismo lessicale o di ingorgo sintattico, per imprimere limpidezza ai flussi alle riflessioni, alle confessioni, alle preghiere al Presidente, di simmetriche scelte del diario personale, che avvolgono il lettore nel guscio sicuro della poesia che protegge dal male di vivere con il sublime e trasparente battito del cuore.
CARMELO ALIBERTI