Grazia DELEDDA,
una narratrice primordiale e moderna
di Domenico Trovato
Nacque il 27 sett. 1871 a Nuoro, periferia culturale tra le più isolate d’Italia. Premio Nobel nel 1926. Pur formatasi in una famiglia discretamente abbiente, la vicenda della D. non può essere disgiunta dalla particolare situazione storica della condizione femminile, non soltanto in Sardegna, ma in quasi tutto il resto d’Italia, all’indomani dell’Unità nazionale. Nelle sue opere tuttavia non risultano frequenti e tanto meno politicamente consapevoli gli accenni alla questione femminile. Contrariamente all’impegno letterario di Sibilla Aleramo (Una donna, 1906), la Deledda non fu mai veramente sensibile alle problematiche del femminismo. A livello autobiografico e di maturazione della sua personalità, risulta utile leggere il romanzo Cosima (1937, postumo) che tratteggia la sua vita nella casa paterna, dalla rustica semplicità, ma ancorata ad una visione patriarcale dei rapporti familiari. In Cosima si apprende pure che i suoi anni dell’infanzia e dell’adolescenza vennero segnati da una ininterrotta catena di sciagure, a cui furono soggetti fratelli e sorelle. Queste difficoltà ambientali fecero maturare nella Deledda propositi di fuga dall’ambiente sardo, che in seguito si realizzeranno soltanto con il matrimonio e il trasferimento a Roma. Sul piano letterario Cosima è invece un libro di ricordi espressi in modo lirico, con spiccata tendenza al meraviglioso e al miracolistico, e contiene in sintesi tutta l’ideologia poetica cara alla scrittrice sarda. Vi domina terribile il suo primordiale pensiero con compiaciuta insistenza: “La vita segue il suo corso fluviale, inesorabile: vi sono tempi di calma e tempi torbidi, a cui nulla può mettere riparo: e invano si tenta di arginarla…Forze occulte, fatali, spingono l’uomo al bene o al male; la natura stessa, che sembra perfetta è sconvolta dalle violenze di una sorte ineluttabile”. Vi predomina incontrastato il celebre trinomio colpa- castigo- espiazione (e redenzione), così spesso evocato per spiegare la poetica deleddiana, catena causale generata dal peccato originale nella sua dimensione di terrore “…un terrore che non l’abbandonò mai più, sebbene oscuramente sepolto da lei in fondo al cuore come il segreto di una colpa misteriosa e involontaria: l’antica colpa dei primi padri…” Questa colpa è nella Deledda sostanzialmente il peccato dell’eros, che fatalmente abbatte sugli uomini la pesante catena dei castighi. Ma la colpa è causata dal costume che agisce in modo repressivo sull’eros. Non resta che la via di una continua espiazione, che in buona parte dell’opera costituisce il limite dell’arte deleddiana. Una causa psicologica del senso di colpa forse può essere cercata nel “peccato di sradicamento”, l’abbandono dell’isola- terra- madre. Tra le altre sue opere ricordiamo: 1. La via del male (1896), con il quale la Deledda si accosta ai canoni del verismo: in esso “… intorno al tema colpa-castigo troviamo nel giro di poche righe: maledizione, delitto, castigo, male, colpa, ladro, omicida, predatore, innocenza, colpevole, delitto, tradimento, giudice, etc.”(A. Piromalli); 2. Elias Portolu (1903), tipica storia deleddiana dell’impossibilità di opporsi al male, posta in rapporto dialettico con la possibilità invece della redenzione attraverso la sofferenza; 3. L’edera (1908), le novelle di Chiaroscuro (1912), Colombi e sparvieri (1912), il notissimo Canne al vento (1913), uno dei suoi più celebrati romanzi; 4. Il segreto dell’uomo solitario (1921), romanzo con cui la Deledda inizia una sorta di seconda poetica, avvicinandosi ai modi del romanzo psicologico. I giudizi della critica sull’opera della Deledda non furono unanimi, come già ammetteva N. Sapegno in un suo saggio del 1947. La D. infatti appartiene innanzitutto a quella razza di puri narratori impegnati soltanto nel raccontare. Equilibrato è il giudizio del Sapegno, che tentò di illustrare la sostanza dei due corni del dilemma critico deleddiano, l’irrisolta compresenza di verismo e decadentismo: “Fin dai primi libri, la tecnica verista, il folklore regionale furono per lei soprattutto un pretesto a sfogare, attraverso il pittoresco decorativo e stilizzato del paesaggio e dei personaggi di un mondo primitivo e favoloso, la radice lirica e romantica della sua ispirazione… Un lirismo ingenuo, e non decadentistico: che tende a rapprendersi e a condensarsi in figure morali, in spunti di parabole, e si rispecchia nel fondo etnico di una concezione elementare della vita, nella moralità opaca e superstiziosa, pregna di ragioni religiose e magiche, della Sardegna più arcaica e più chiusa”.
Bibliografia: 1. Angela Guiso, Il doppio segno della scrittura. Deledda e oltre, Sassari, Delfino, 2012. 2.Mario Miccinesi, Grazia Deledda, Firenze, La Nuova Italia, 1975 3. In preparazione, presso l’Università di Sassari, l’Edizione Nazionale dell’Opera Omnia della scrittrice sarda(2015).