Lo scrittore e critico messinese Aliberti, dopo la recente raccolta Il limbo, la vertigine, dirama – è proprio il caso di dire cosa – agli amici, una sorta di lettera-cronaca in versi (illustrata da Paolo De Pasquale); quasi un monologo sotto specie di ideologica preghiera al cielo da parte di un operaio che sta patendo sulla propria pelle l’alienante condizione di schiavo della sopraffazione tecnologica in carico ai giorni nostri. Se non è nuova la poesia di fabbrica, diciamo così tanto per intenderci, nuovo è il modulo formale con il quale Aliberti ci porge questo poemetto, dall’andamento sinuosamente concepito attorno ad alcuni temi fondanti la sua situazione umana e spirituale. Siamo in presenza di lessico tecnico traslato poeticamente, di assun¬zione di un vocabolario meccan-metallico in contesto artistico sintatticamente concepito in un tu tra imperativo, esortativo, denunziante l’im¬posizione esistenziale di cui il protagonista è vittima. Questo per la prima parte: nella seconda parte, invece, è l’operaio che si rivolge al poeta, al “dolce caro poeta”, qui assimilato ad un fratello di sventura: “…io e tu siamo allo spiedo della storia“, sono infatti le parole di un comune destino d’emarginazione. Il cielo, destinatario di questa missiva, trova braccio e mente uniti in una comune disdetta alla storia. La promessa di libertà che il poeta fa intendere nella sua operazione letteraria, viene recepita dal suo interlocutore come un tempo di uguale aspettazione, nella pagina come nella vita, nella poesia come nel lavoro. E il tutto è un invito alla resistenza contro gli agguati del sistema (Aliberti la chiama, veramente, rivoluzione): insomma, ognuno dalla propria parte, operaio della produzione e operaio della parola, decidono di prendersi in mano il timone degli eventi, di mettere a frutto una speranza più volte predicata e sempre prorogata di giorno in giorno, di epoca in epoca.
Domenico Cara
per la rubrica SFOGLI L’AUTORE